Antica Roma Le origini L’età monarchica L’età repubblicana L’arte-La condizione femminile-Il teatro

Antica Roma Le origini L’età monarchica L’età repubblicana L’arte-La condizione femminile-Il teatro

L’arte

In origine l'arte a Roma aveva finalità pratiche: l'espansionismo aveva creato l'esigenza di costruire ponti e strade per collegare alla capitale le zone conquistate, acquedotti e reti fognarie erano poi indispensabili per i centri abitati. Tutto questo spiega il motivo per cui si sviluppano nuove tecniche edilizie e l'utilizzo, come materiali,  del mattone (più economico e resistente) e il calcestruzzo. L'arco e la volta diventano protagonisti dell'architettura. La struttura urbanistica riprende la pianta ippodamea di origine ellenistica, in cui le strade si dispongono ortogonalmente all'interno di una pianta quadrangolare così come avveniva nel castrum (accampamento militare romano vedi lezione Antica Roma Le origini L’età monarchica L'età repubblicana Storia La religione Cinema e teatro). I due assi principali erano quello nord- sud (cardo maximus) e quello est- ovest (decumano maximus). All'incrocio si ergeva il forum, la piazza del mercato dove si discuteva anche di affari e di politica. Lungo il perimetro della città si aprivano quattro porte: quella a nord (Porta Praetoria), a sud (Porta Decumana), a est (Porta Dextera), a ovest (Porta Sinistra) (fig.01). Questa pianta è comune a Firenze (Florentia), Aosta (Augusta Praetoria) e a tutte le altre città fondate dai romani ma non caratterizza la città di Roma perché si erge su colli.

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fig.01

I ponti (fig.02)

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fig.02

I ponti vengono realizzati ad arco, un elemento architettonico inventato dagli etruschi. La costruzione era affidata al pontifex maximus perché questa struttura aveva infatti un significato simbolico religioso (vedi lezione Antica Roma Le origini L’età monarchica L'età repubblicana Storia- La religione Cinema e teatro). Si procedeva  con l’erigere un solo arco utilizzando una struttura lignea chiamata centina sulla quale erano montati i conci uniti da malta (impasto di acqua, calce e sabbia) (fig.03). Nel caso in cui dovevano esserci più archi, si costruivano pilastri su su cui poggiarli che andavano a finire sui pali di fondazione eretti sul letto del fiume. Tra un arco e l'altro c'era uno spazio triangolare su cui veniva costruita una finestra di scarico al fine di alleggerire il peso sostenuto (fig.04). Anche i ponti, al pari delle strade, avevano una pavimentazione lastricata mentre i parapetti laterali garantivano la sicurezza di coloro i quali (pedoni o carri) attraversavano la struttura.

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fig.03
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fig.04

Acquedotti

I romani hanno costruito acquedotti importanti che trasportavano l'acqua dalla sorgente ai centri urbani sfruttando la forza di gravità grazie alla pendenza del condotto. Quest'ultimo si trovava su grandi arcate che attraversavano il paesaggio. Il primo acquedotto romano in assoluto è l'Aqua Appia (fig.05) che portava a Roma l'acqua delle sorgenti ubicate sulla via Prenestina. In generale i condotti erano sotterranei mentre in pianura attraversavano per l'appunto queste grandi arcate sostenute dai piloni. 

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fig.05

Una volta arrivata in città, l'acqua finiva in un serbatoio; qui era filtrata dalle impurità grazie a delle griglie per poi essere smistata nelle varie zone a cominciare dalle fontane pubbliche. I condotti purtroppo erano foderati in piombo, un metallo tossico per l'uomo. Queste tubature recavano marchi che indicavano il nome del produttore. L'acqua era distribuita anche alle botteghe artigiane, in particolare quelle che curavano la tinteggiatura e la pulitura dei tessuti. Poi c'erano anche le terme, luoghi in cui si curava l'igiene personale e ci si rilassava, ma dove si discuteva anche di politica e di affari (fig.06). Erano caratterizzate da una serie di ambienti con vasche di acqua calda (calidarium), tiepida (tiepidarium) e fredda (frigidarium). Il sistema di riscaldamento era a ipocausto (fig.07)cioé la diffusione del calore avveniva sotto una pavimentazione sospesa retta da pilastrini in mattoni per poi arrivare fino alle pareti della stanza attraverso tubi di terracotta. 

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fig.06
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fig.07

Le condutture d'acqua fornivano anche le latrine, bagni pubblici il cui utilizzo era possibile attraverso il pagamento di un'esigua somma di denaro. Esse si componevano di un lungo basamento in pietra o marmo rivestito da assi di legno bucate (fig.08). All'interno vi scorreva l'acqua che portava i rifiuti nella fogna. Le case dei ricchi erano le uniche dotate di bagni. Tutta l'acqua sporca scorreva in condutture che confluivano in canalette ai lati della strada e nella rete fognaria ( la cloaca Maxima costruita dai re romani di origine etrusca).

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fig.08

Le opere murarie

Le tecniche murarie romane hanno fatto la storia dell'umanità. Cominciamo con l’opus caementicium (fig.09), il calcestruzzo fatto con l’impasto di malta (calce mescolata a sabbia e pozzolana) e pietrame. Si sfruttavano così le proprietà della pozzolana, una roccia vulcanica molto fine tipica della zona di Pozzuoli. L'impasto ottenuto veniva colato nello spazio vuoto compreso tra due pareti (in pietra o mattoni cotti dentro fornaci di forma quadrata) e, solidificandosi, creava una struttura molto solida. 

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fig.09

A seconda del materiale con cui sono stati realizzati e a seconda della disposizione degli elementi sono riconoscibili vari tipi di murature. Se il muro è fatto solo di mattoni sarà l'opus latericium (fig.10)l'opus incertum è fatto da pietre piccole disposte in maniera irregolare (fig.11); l'opus reticolatum (fig.12) è composto da blocchetti di tufo di forma piramidale con la punta affogata nel calcestruzzo; l'opus spicatum (fig.13) ha i mattoni o pietre disposte a spina di pesce; l’opus quadratum (fig.14) vede la muratura realizzata da grossi mattoni squadrati a forma di parallelepipedo disposti su file di uguale altezza tenuti insieme da grappe di metallo.

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fig.10
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fig.11
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fig.12
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fig.13
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fig.14

L'arco e la volta

I romani adoperavano molto l’arco e la volta nelle loro costruzioni. L'arco è composto da blocchi di pietra o mattoni, detti conci, disposti seguendo la forma della centina, una struttura in legno (fig.15). Sulla sommità si trova il concio di chiave (fig.16). Il peso delle strutture, grazie all'arco, si scarica molto più agevolmente rispetto a quanto succedeva con l'architrave nell'architettura greca. 

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fig.15
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fig.16

Si dice a tutto sesto quando ha forma semicircolare (ad esempio negli acquedotti, archi di trionfo, ponti), a sesto acuto quando è più alto che largo, ribassato in caso contrario (fig.17).  I romani utilizzano perlopiù quello a tutto sesto. 

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fig.17

Quando l'arco diviene funzionale alle coperture curve abbiamo le volte che possono essere a botte (semicilindriche) in ambienti longitudinali, a crociera (intersezione di due volte a botte uguali e ortogonali) (fig.18) e infine c'è la cupola, una copertura semisferica che sovrasta ambienti di forma circolare (fig.19)

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fig.18
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fig.19

Il cantiere era guidato da un architetto che faceva da supervisore mentre la manodopera era composta da lavoratori specializzati (non schiavi). Per costruire archi e volte si utilizzavano gru e macchine sofisticate in grado di sollevare blocchi assai pesanti.

Mosaici pavimentali

Le pavimentazioni degli edifici romani erano in laterizi o decorati con mosaici pavimentali ovvero tappeti in pietra costruiti su più strati: quello più in fondo era fatto da grossi ciottoli, sopra c'era la calce con pietrisco, nello strato ancora superiore calcio e sabbia e infine, su un letto di posa solo di calce, erano disposte le tessere di pietra. Ricordiamo, tra le varie tipologie di pavimenti romani: l'opus spicatum (fig.20) a spiga di pesce, l’opus scutulanum (fig.21) realizzato con frammenti di marmo di forma irregolare, l’opus sectile (fig.22) prodotto con frammenti di pietra o di marmo policromi disposti in modo da formare disegni geometrici, opus musivum o mosaico (fig.23) creato dall'accostamento di tessere a forma di piccoli parallelepipedi e realizzate in pietra, paste vitree, terracotta, madreperla; in quest'ultimo caso le tessere erano fissate su un letto di calce, stucco, gesso.

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fig.20
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fig.21
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fig.22
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fig.23

I templi

Al VI secolo a.C. risale il tempio di Giove Capitolino innalzato dai re etruschi. Il tempio della Fortuna Virile o tempio di Portùno (fig.24) è stato costruito nel II-I secolo a.C. Sito nel Foro Boario, ove avveniva il mercato del bestiame, quest'ultimo é dedicato al dio che proteggeva le attività portuali del Tevere.  Si erge su un alto podio (elemento di derivazione etrusca) e utilizza l'ordine ionico con riferimento all'architettura greca. È tetrastilo pseudoperiptero perché parte delle colonne sono addossate ad una parete. Le colonne del pronao sono in travertino mentre quelle addossate alle pareti esterne sono in tufo con la base e il capitello in travertino. In questo tempio ci sono elementi che diverranno tipici dell'architettura Roma: le cornici dentellate e le semicolonne che ritmano la parete esterna della cella. 

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fig.24

Accanto c'è il tempio di Ercole Vincitore (fig.25), conosciuto come tempio di Vesta, risalente alla fine del II secolo a.C. Si erge nel Foro Boario perché Ercole era il dio protettore della transumanza e delle greggi. Si tratta del più antico edificio marmoreo di Roma. Realizzato in marmo pentelico, ha una pianta circolare con una peristasi di ordine corinzio. Le venti colonne sono fortemente scanalate così da generare un effetto di chiaroscuro molto pronunciato.

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fig.25

Il Foro romano (fig.26)

Il Foro romano sorge in età repubblicana nella valle tra il colle Palatino e il Capitolino. Tra gli edifici sacri che lo hanno reso celebre ricordiamo il tempio di Saturno (498 a.C.) (fig.27), ristrutturato in epoche successive e sede del tesoro della città. L’edificio è intitolato a Saturno, il dio greco Crono protettore dell'agricoltura e delle messi. 

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fig.26
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fig.27

C'è poi il tempio di Castore e Polluce (484 a.C.) (fig.28), i gemelli divini che, secondo la leggenda, avevano favorito la vittoria dei romani nella battaglia del lago Regillo (496 a.C.) contro i Latini. Il tempio di Vesta (fig.29), invece, risalente al 191 a.C., custodiva all’interno un focolare che proteggeva Roma. 

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fig.28
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fig.29

Sul lato nord era ubicata la Curia, ove avvenivano le riunioni del Senato. Sullo sfondo c'era poi il Tablinum, oggi inglobato nel Palazzo dei Senatori, sede dell'archivio di Stato. Nel momento in cui l'imperatore Teodosio nel IV secolo d.C. vieterà tutte le religioni pagane e chiuderà i templi, il Foro romano verrà abbandonato e inizierà la sua decadenza fino a diventare terreno di pascolo per le vacche (XVII secolo d.C.)

Le basiliche

In epoca repubblicana nasce anche la basilica, un edificio a pianta longitudinale con una navata centrale più alta e altre due laterali più strette (fig.30). I tre corridoi erano divisi da file di colonne. Da questa pianta trarranno ispirazione le prime chiese cristiane. Nelle basiliche si amministrava la giustizia e si tenevano le assemblee. 

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fig.30

Le più importanti dell'epoca sono la Emilia e la Julia (fig.31) (ai lati opposti del foro), dai nomi delle famiglie patrizie che le avevano costruite. La basilica Emilia (fig.32 e 33) si caratterizzava per le colonne di marmo color rosso scuro provenienti dall'Asia minore. Sul foro si affacciava un portico con due gallerie di archi mentre a sud si collocavano le botteghe addossate all'edificio. Purtroppo, la basilica originaria andrà distrutta durante il sacco di Roma nel 410 d.C. ad opera dei Visigoti e, successivamente, divenne materiale di recupero per la costruzione di palazzi importanti in epoca rinascimentale.

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fig.31
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fig.32
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fig.33

Il Foro di Cesare

Giulio Cesare progettò il foro a lui dedicato nel 54 a.C. Venne inaugurato nel 46 a.C. in seguito alla vittoria di Farsalo (vedi lezione Antica Roma Le origini L'età monarchica L'età repubblicana Storia- La religione- Cinema e teatro). La piazza doveva ospitare il tempio dedicato a Venere Vincitrice (fig.34)

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fig.34

Tutto il complesso fu comunque completato da Ottaviano Augusto. Giulio Cesare, per costruire il foro, espropriò tutti i suoli che gli servivano ubicati lungo il clivus argentarius, una strada di Roma a nord-est del foro romano. Alle spalle del colonnato che dava su questa via si disponevano una serie di botteghe a tre piani con coperture di legno. La piazza si avvaleva di un'enorme statua equestre di Giulio Cesare. La statua di Venere vincitrice, sita nella cella del tempio, era opera di uno scultore neoattico. La struttura ospitava quadri famosi e collezioni di gemme. Del foro originale rimane solo l'impianto e parte delle botteghe perché tutto il resto è frutto di rimaneggiamenti successivi e restauri eseguiti sin dall'epoca imperiale.

La domus (figg.35 e 36)

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fig.35
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fig.36

Abbiamo notizie sulla struttura della domus romana grazie agli scavi di Ercolano e Pompei. All'inizio le case erano costruite in argilla e paglia con le fondamenta in pietra e, in seguito, interamente in mattoni. L’abitazione si articola su un unico piano attorno a due cortili. Sulla parte anteriore la casa è aperta verso l'esterno: qui si accolgono gli ospiti e si vuole mostrare lo status sociale del padrone. Attraverso un corridoio (fauces) si accedeva ad un primo cortile interno (atrium) coperto da un compluvium ovvero un tetto inclinato verso l'interno con un'apertura centrale sotto la quale c'era una vasca adibita a raccogliere le acque piovane (impluvium). Sul lato opposto all'ingresso dell'atrio era collocato il tablinum che fungeva da luogo di ricevimento degli ospiti, studio del padrone di casa, biblioteca. Qui, inoltre, c’era l’archivio della famiglia ed erano custodite le maschere funerarie degli avi deceduti dentro appositi armadi (vedi paragrafo scultura). Sull’atrium si affacciavano i cubicola, piccoli vani adibiti alle faccende domestiche o a stanze da letto piccole e scomode arredate da qualche letto e da qualche sedia. Il letto era una tavola di legno coperta da un pagliericcio. Cuscini e  drappi servivano da coperte. L’impluvium era collegato ad una cisterna da cui partivano le canalizzazioni che facevano defluire via l'acqua in eccesso verso la strada. Dal tablinum si accedeva al secondo cortile dotato di un porticato (perystilum) che circonda un hortus (giardino) delimitato da un muro; qui si coltivava l'orto di casa insieme alle erbe medicinali e ai fiori. Su questo cortile si apriva anche la culina (cucina con forno e focolare con un’apertura sul muro per far uscire il fumo), un magazzino e spesso c'era anche la latrina (bagno), un lusso che si potevano permettere solo i ricchi signori. In un angolo del perystilium c’era anche il lararium, l’altare dedicato agli antenati protettori della casa. Sempre sul cortile porticato si affacciava il triclinium, la sala dedicata ai banchetti: l'ambiente era così chiamato dai triclini (dai tricliniari, i letti che avevano come antenati le klinai greche) ove i romani si sdraiavano per banchettare (vedi lezione Antica Grecia Alimentazione e sport). Anche le donne potevano partecipare ai banchetti benché sedute. Le domus più ricche erano decorate da splendidi mosaici e pitture. 

Le insule (fig.37)

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fig.37

Il popolo non abitava nelle domus, bensì nelle insule, palazzi a più piani suddivisi in piccoli appartamenti a un solo vano ove alloggiavano più persone. Questi edifici erano costruiti in mattoni e legno (materiali assai economici) ed erano soggetti ad incendi e a crolli. Al contrario di quanto avviene oggi, gli appartamenti più ricercati erano quelli situati ai piani più bassi perché da lì si poteva fuggire più facilmente in caso di incendio. Vivendo ammassati in spazi così esigui le condizioni igieniche erano assai precarie. Le insulae erano frutto di speculazioni edilizie: un famoso investitore era Crasso. Al contrario delle domus, che erano prive di finestre sull’esterno, qui il rumore notturno era insopportabile (lo raccontano le fonti contemporanee). Non essendoci inoltre i bagni, i rifiuti organici erano gettati dalla finestra o ci si serviva di latrine pubbliche. Una scala esterna conduceva ai vari piani. Ad ogni piano due finestre davano sui vicoli.  Gli appartamenti erano dati in affitto a persone di passaggio venute a Roma in cerca di fortuna. L'unico abbellimento che gli abitanti delle insule si concedevano era mettere dei vasi di fiori alle finestre. Al piano terra delle insule spesso abitavano artigiani poveri con le loro famiglie perché la casa serviva anche da bottega.

La scultura

L’ arte del ritratto nasce nell'antica Roma repubblicana con un intento funebre: quando moriva un membro di una famiglia importante se ne riproducevano i lineamenti in maschere di cera che venivano poi conservate in un armadio della casa collocato nel tablinum. Le fattezze del defunto dovevano essere riprodotte in maniera fortemente realistica: occorreva vederne le rughe e i vari difetti. Quando avvenivano i funerali queste maschere venivano fatte indossare da attori (che erano più o meno della stessa altezza e della stessa corporatura degli avi cui facevano riferimento), i quali le portavano in processione indossando gli abiti corrispondenti alla carica più illustre che il defunto aveva ricoperto. Il rituale aveva una valenza fortemente simbolica perché era come se di generazione in generazione i membri della famiglia trasmettessero ai posteri valori quali il senso dello Stato, l'onore, la dignità. Arrivati nel foro un parente saliva sulla tribuna, elogiava l'operato del defunto quando era in vita ed elaborava l'iscrizione funeraria. Si passava poi all’encomio rivolto agli antenati, le cui immagini erano presenti alla cerimonia grazie alle maschere funerarie. Alla fine dell'età repubblicana risale la statua (o togato) Barberini Roma Musei Capitolini (fig.38) in cui un nobile romano è rappresentato con in mano due busti che fanno riferimento a due suoi avi. Il gruppo scultoreo é in marmo. Il personaggio principale ha la testa che, in realtà, è stata realizzata posteriormente al resto dell'opera. I due busti sono ritratti in maniera fortemente realistica: si osservino le rughe e le labbra serrate. Entrambi comunicano un'idea di severità e, per la loro somiglianza, si pensa che si tratti di padre e figlio. Lo Ius Maiorum, cioè il diritto di conservare in casa l’immagine dei propri antenati, era un qualcosa che potevano fare solo i discendenti dei magistrati più importanti.  

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fig.38

Ritratto di Pompeo Magno copia del primo secolo d.C. di un originale del I secolo a.C. Copenaghen Ny Carlsberg Glyptotek  (fig.39) Mentre la tradizione italica tende a rendere in maniera fortemente realistica i tratti dell’effigiato, si fa strada un'altra concezione che risente profondamente dell'influenza ellenistica e che mira ad idealizzare la rappresentazione: un esempio è questo ritratto di Pompeo Magno in cui, anche se ci sono alcune rughe sulla fronte (allusione alla suo ruolo difficile di generale e di magistrato), i lineamenti del viso sono caratterizzati da equilibrio e armonia. È presente poi la famosa anastolé ovvero la ciocca ribelle di capelli con cui era di solito rappresentato Alessandro Magno (vedi lezione Dall'età alessandrina all'ellenismo). Verismo e idealizzazione, dunque, convivono in questa singolare immagine del condottiero romano.

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fig.39

 

 

 

 

La condizione femminile

La condizione femminile

Qual era il modello di donna apprezzato dagli antichi romani fino all'epoca della tarda Repubblica? La risposta ce la fornisce un’epigrafe sepolcrale risalente al II secolo a.C., il cui contenuto tratteggia l'ideale del perfetto stereotipo femminile della nobilitas: bella, devota al marito e ai propri figli, custode della casa, “donna onesta nel portamento e piacevole nella conversazione”. Sappiamo, infatti, da Plutarco che la matrona romana, sposata legittimamente e madre di cittadini romani, non poteva parlare assolutamente in pubblico e doveva apparire e comportarsi in maniera moderata anche per quanto riguardava l'abbigliamento. La matrona virtuosa, inoltre, era una padrona di casa che filava personalmente la lana e dirigeva il lavoro delle ancelle alla maniera delle donne greche (vedi lezione Antica Grecia Le donne Il teatro). Ma procediamo con ordine. Al momento della nascita alle donne veniva imposto il nome gentilizio (cioè quello della famiglia: ad esempio Claudia se apparteneva alla gens Claudia così come Iulia alla gens Iulia, ecc.) unito al patronimico ovvero il nome del padre (Titi filia= figlia di Tito): quest'ultimo particolare era molto importante perché attestava la nascita di donna libera. Tutto ciò ovviamente creava problemi a livello domestico perché ci potevano essere molte omonime all’interno della stessa famiglia: da qui l'uso di accompagnare il nome con la successione cronologica “prima”, “secunda” o con termini quali maior, minor, ecc. o con diminutivi. Le cose iniziano però a cambiare alla fine dell'età repubblicana: mentre tra le donne di nobili origini rimane l'utilizzo del nome gentilizio, nei ceti medi la differenza tra l’ingenua (donna di nascita libera) e la liberta (schiava liberata) é l'uso del patronimico per la prima e l'indicazione del patronato per la seconda (ad esempio Titi liberta= liberta il cui padrone é Tito). Infatti, le schiave liberate prendono il nome gentilizio del patrono. All'epoca dell'antica Roma godevano di ottima considerazione le matrone che partorivano molti figli maschi, futuri cittadini e soldati che avrebbero reso gloriosa la storia di Roma (è il caso di quella Claudia cui è dedicata l'epigrafe). Scopo del matrimonio era la procreazione. Le mogli altolocate, secondo il modello ideale, allattavano personalmente i figli. La matrona era riconoscibile dagli abiti che indossava: la tunica e la stola. Quest'ultima era una sopravveste che arrivava fino ai piedi allacciata alle spalle con delle fibule. C'era poi un mantello che copriva il capo detto palla che si era obbligati ad indossare quando si usciva fuori di casa insegno di pudicizia (fig.40). Questo indumento era il simbolo del passaggio da fanciulla allo status di matrona. In occasione di lutto si indossava il velo nero e il dolore per la perdita era simboleggiato dallo strapparselo di dosso, urlare e graffiarsi le guance.

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fig.40

La vera matrona romana doveva dunque vestirsi e comportarsi in maniera assolutamente sobria; solo le mogli legittime che avevano generato dei figli potevano indossare il tutulus (bende di lana annodate a forma di cono che si sistemavano attorno al capo per acconciare i capelli). In origine le pettinature erano assai semplici; successivamente, verso la fine dell'età repubblicana, iniziano ad essere più complicate. Le donne perbene sovrintendevano in casa alle faccende domestiche. Le uniche attività da loro svolte in prima persona erano la tessitura e la filatura della lana: infatti, nelle iscrizioni funerarie femminili spesso appaiono raffigurati fusi, conocchie, ecc. Il diritto romano metteva sullo stesso piano le prostitute e le donne che lavoravano a diretto contatto con il pubblico (cameriere, locandiere, attrici, mime, ballerine), tutte schiave o liberte. Plinio il Vecchio ci parla addirittura di una regola che vietava alle donne di filare in aperta campagna perché questo gesto avrebbe portato il malocchio causando il danneggiamento del raccolto: probabilmente la credenza trae origine dalla convinzione che il movimento rotatorio del fuso poteva scatenare forse magiche negative. La donna doveva esercitare il solo lavoro che le era concesso esclusivamente in ambito domestico altrimenti si sarebbe sovvertito l'ordine naturale delle cose. Ma continuiamo ad elencare le virtù della donna perfetta: la mater familias doveva essere casta (avere cioè rapporti sessuali solo all'interno del matrimonio e a fini procreativi), pudica (riservata, discreta, moderata), pia (devota al marito e ai figli e alle pratiche religiose e, soprattutto, nei confronti delle divinità che proteggevano la famiglia), frugi (onesta), domiseda (che sta sempre in casa) e lanifica (che lavora al telaio). Proseguiamo ora nell'ambito di questo quadro a parlare delle diverse modalità giuridiche con cui si siglava un matrimonio. L'unione era monogamica, anche se di fatto l'uomo poteva avere delle concubine come avveniva in Grecia. Il giorno del matrimonio la sposa indossava un velo rosso arancio, chiamato flammeum, che copriva una acconciatura con capelli intrecciati e annodati fermati da uno spillone (hasta caelibaris) molto simile alle armi utilizzate dai gladiatori (fig.41). Esso era considerato simbolo di buon auspicio per un matrimonio prolifico oltre che allusivo alla sottomissione della donna.  

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fig.41

I capelli erano spartiti in sei ciuffi legati con nastri. Durante la cerimonia gli sposi dovevano tenersi per la mano destra come simbolo di promessa fedeltà. Al termine del banchetto il marito fingeva di rapire la sposa per poi portarla a casa sua seguita da un corteo. Durante la processione la fanciulla prendeva per mano due bambini mentre un terzo li precedeva con una torcia di biancospino. Una volta arrivata alla casa del marito, la sposa circondava la porta con dei fili di lana e spalmava sopra l’uscio olio e lardo (probabilmente in segno rispettivamente di protezione divina e augurio di abbondanza). Da quel momento la donna, che non aveva nome di battesimo, avrebbe assunto quello del marito (da qui la recitazione della formula “Ubi tu Gaius, ibi ego Gaia “(Dove tu sarai Gaio, lì io sarò Gaia"), una sorta di giuramento di amore eterno, e viene sollevata da terra così da non varcare con i piedi la soglia. Quest'ultima consuetudine si riallaccia al fatto che solo gli estranei entravano per la prima volta in una casa perché i membri della famiglia lì sono nati e vi hanno sempre abitato. Il giorno dopo la sposa avrebbe indossato il costume da matrona dopo aver fatto un'offerta ai Lari e ai Penati. La coppia entrava a far parte della famiglia del marito e i figli avrebbero portato il nome gentilizio. L'età minima per il matrimonio era 12 anni per le femmine 14 per i maschi; poteva avvenire tra liberi cittadini ma era anche concesso agli stranieri (peregrini). Agli schiavi era permessa solo la coabitazione (contubernium) ovvero la convivenza sotto lo stesso tetto ma senza validità giuridica. Inoltre, il dominus (il padrone degli schiavi) aveva voce in capitolo su questa unione soggetta al suo arbitrio: essa poteva essere interrotta nel momento in cui uno dei due conviventi era venduto. Le schiave non avevano diritti sui figli perché erano sotto la potestas del padrone. Originariamente, una volta sposata, la donna passava dalla tutela esercitata sulla sua persona dal padre a quella del marito (o del suocero nel caso in cui lo sposo era ancora sotto la sua potestas). Nel momento in cui si trasferiva nella nuova casa la fanciulla, con un'apposita cerimonia (traditio), rinunciava ad onorare le divinità protettrici della sua abitazione natia per adottare i culti domestici praticati nella dimora di adozione. Uno dei più antichi riti matrimoniali era la confarreatio, in cui gli sposi si dividevano una focaccia di farro, simbolo della loro vita futura in comune. Col tempo l'unione sarà celebrata davanti a dieci testimoni dal pontefice massimo e dal flamine diale, i due massimi sacerdoti (vedi lezione Antica Roma Le origini L’età monarchica L’età reoubblicana Storia-La religione- Cinema e teatro). Durante il rito gli sposi sacrificavano a Giove un animale. C'erano poi altre due formule giuridiche di matrimonio: la coemptio era una vera e propria forma di compravendita della donna e della sua dote. Dopo un anno di convivenza i due coniugi confermavano l'intenzione congiunta di vivere come marito e moglie (adfectio maritalis) e lo sposo acquisiva il potere assoluto sulla moglie. In una clausola contenuta nelle leggi delle XII tavole (V secolo a.C.) si sosteneva che, nel caso in cui una donna sposata senza il rito della confarreatio e senza coemptio, si allontanava ogni anno dalla casa del marito per tre notti consecutive, sarebbe rimasta sotto la tutela della patria potestà paterna anche se sposata (matrimonio sine manu). Dato che erano in ballo questioni patrimoniali importanti in realtà chi decideva sulla formula giuridica da adottare erano le famiglie di provenienza e non i coniugi. A partire dal II secolo a.C. questa forma di unione giuridica andrà via via sempre più diffondendosi: in questo modo i beni della donna rimanevano sotto tutela della famiglia di provenienza. I matrimoni, come avveniva spesso nell'antichità, si contraevano per siglare alleanze politiche avendo come obiettivo il miglioramento dello status sociale delle famiglie. Era ammesso il divortium (scioglimento del matrimonio di comune accordo) nel caso in cui uno dei due coniugi perdeva la libertà personale, la cittadinanza romana o se era sottoposto a condanna penale, ma anche quando uno dei due dichiarava di non voler più convivere come marito e moglie. Veniva punito come reato l’adulterio, considerato così grave da comportare la pena di morte (solo nel caso in cui a commetterlo era la donna). Lo stesso valeva per le mogli che bevevano vino, cosa assolutamente proibita al tempo. In quest’ultima circostanza, infatti, l'ubriachezza avrebbe comportato il rischio di adulterio, la perdita del controllo e il rischio di spifferare inconsapevolmente segreti di famiglia: questo particolare non è da poco in un'epoca in cui la carriera politica progrediva grazie a sotterfugi e alleanze segrete. Per questo motivo esisteva il famoso diritto del bacio (ius osculi): i parenti maschi, fino al secondo grado di cugini, potevano baciare sulla bocca una donna loro congiunta per verificare se avesse bevuto: in quel caso era accusata di aver provocato disonore alla famiglia. Se sottraevano le chiavi della cantina (in cui era conservato il vino), le donne erano punite con il ripudio, anche se non avevano bevuto. Erano ripudiate anche quelle che abortivano senza il consenso del marito. Tra i primi casi di separazione di cui siamo a conoscenza ce n’è uno risalente al III secolo a.C. dovuto alla sterilità della coppia, ovviamente sempre imputato alla donna. Le mogli sterili che si mettevano da parte temporaneamente per far procreare il marito con una donna feconda venivano considerate delle eroine.  Si moriva di parto mediamente tra i 16 e i 35 anni (come è avvenuto per Tullia, la figlia di Cicerone). Sempre grazie alla legge delle XII tavole sappiamo che, nel caso in cui una persona fosse morta senza fare testamento, le donne potevano ereditare in qualità di mogli, di figlie, di nipoti appartenenti alla linea di discendenza maschile . Addirittura, tra il IV e il III secolo a.C. ci sono casi in cui esse potevano fare testamento ed ereditare. Si va, dunque, verso la conquista di una graduale autonomia nell’esercizio di alcuni diritti e nella gestione del patrimonio anche se, formalmente erano soggette alla tutela di un parente maschile e, in mancanza di quest’ultimo, di un tutore. Eccezione a questa regola erano le Vestali (vedi paragrafo dedicato). Molti stranieri non potevano sposare donne romane perché non godevano del conubium (diritto di contrarre il matrimonio). Erano considerati illegittimi i matrimoni tra: un senatore e una liberta, un’adultera e l’amante, le rapite e i rapitori, il tutore e la pupilla. Queste categorie optavano per il concubinato. Donne di strato sociale basso che si univano a uomini di ceto superiore ricorrevano alla formula giuridica del contubernio (vivere sotto lo stesso tetto).

Le prime attività politiche

Un personaggio nemico da sempre dell'emancipazione femminile è stato Catone il Censore (fig.42) il quale, nel II secolo a.C., lottò contro l'abrogazione della famosa Lex Oppia, votata durante la seconda guerra punica. 

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fig.42

Essa imponeva alle donne la limitazione del possesso e dello sfoggio di gioielli (potevano portare addosso non più di una mezza oncia d'oro) e di abiti costosi e sgargianti. Era loro inoltre proibito viaggiare in carrozze fastose all’interno di Roma e fino a un miglio di distanza dalla città, fatta eccezione per la partecipazione a cerimonie religiose pubbliche. Tale provvedimento era giustificato dal fatto che Roma si trovava in un momento di piena crisi e, in questa maniera, le donne avrebbero fornito il loro contributo per far fronte alla situazione. Le cose però andarono diversamente perché le romane scesero in piazza per protestare: si arrivò addirittura al punto che alcune di esse sostennero pubblicamente le loro posizioni inviando delegazioni a parlamentare. Tutto ciò questo venne visto da Catone il Censore come qualcosa di inconcepibile: le donne osavano protestare e arrogarsi il diritto di parola in pubblico! Per questo motivo il politico arrivò a paragonare le matrone alle Lemurie, le donne del mito greco che avevano ucciso i loro mariti (vedi lezione antica Grecia Il mito- La religione). Il maschio romano iniziava così a temere di veder vacillare quella società patriarcale misogina che caratterizzava la sua “comfort zone” perché si stavano sovvertendo le regole centenarie sulle quali era basata la società civile. Tutto ciò preoccupava i conservatori per i quali gli emblemi del sesso femminile dovevano essere la modestia, la sottomissione, la moderazione, la consacrazione della propria vita al marito e ai figli e la procreazione di futuri cittadini romani. Fu sempre Catone, nel 169 a.C. a voler contrastare il fenomeno sempre più diffuso della concentrazione delle ricchezze nelle mani femminili dovuto alla decimazione della popolazione maschile in guerra. In questo momento storico, infatti, per far fronte al pericolo, si cominciò a favorire l'eredità dei patrimoni a favore di parenti di sesso maschile, seppur di grado più lontano. Ecco perché dopo la seconda guerra punica (III- II secolo a.C.) nelle commedie, soprattutto plautine (vedi paragrafo dedicato) si mettono alla berlina mogli brutte, ricche, avare che danneggiavano vittime innocenti e le donne vengono tratteggiate come bisbetiche ed interessate solo a spendere per sé stesse. Da questo momento la dote sarà ancora amministrata dal marito (in caso di divorzio doveva essere restituita), ma con l'obbligo di assicurare alla consorte un tenore di vita adeguato alla sua posizione economica e sociale.

Il caso delle mogli avvelenatrici

Un caso di cronaca che fece molto scalpore all'epoca avvenne nel 331 a.C., quando un numeroso gruppo di matrone fu accusato di aver somministrato del veleno ai rispettivi mariti. Le venti donne, convocate nel foro della città, sostennero che si trattava di rimedi salutari e quando fu loro imposto di ingerirlo morirono tutte. Molti storici hanno interpretato questo episodio come segno di ribellione da parte del sesto debole. In realtà all’epoca si era diffusa una terribile pestilenza e forse il loro intento era quello di cercare un antidoto per combattere la malattia. Alla fine, però, i risultati ottenuti sono stati ben peggiori.

I mestieri femminili plebei

Molte donne libere erano povere: dovevano lavorare per poter sopravvivere loro stesse insieme alla loro famiglia; trovavano impiego nei laboratori artigianali, nelle industrie, nell'agricoltura, ma potevano anche esercitare il mestiere di ostetriche, bibliotecarie, erboriste, parrucchiere, eccetera.

La prostituzione

La prostituzione sacra (ierodulae) era una pratica di origine orientale che si esercitava presso il tempio di Venus Erycina in Sicilia e a Pyrgi in Etruria. Il culto della divinità era stato importato a Roma verso il 215 a.C. Le sacerdotesse offrivano i loro corpi: una parte del compenso lo destinavano al santuario. Donne, bambine, schiave potevano essere vendute ai lenoni o alle lenae (mezzane) che le allevavano per poi destinarle alla prostituzione esercitata nei postriboli o sotto i portici nelle strade (il verbo fornicare deriva da fornice=portico). 

Le vestali

Le vestali (fig.43) erano le sacerdotesse dedite al culto di Vesta, il cui santuario si trovava nel Foro. Il loro compito era quello di assicurarsi che il fuoco consacrato alla divinità ardesse giorno e notte per assicurare la pax deorum (concordia tra uomini e dèi). Lo si spegneva per breve tempo solo all'inizio della primavera come simbolo dell’inizio di una nuova stagione. Dal 7 al 15 giugno si praticava un rito chiamato stercorario (rimozione del letame) che consisteva nello spegnere il fuoco, rimuovere i rifiuti dal recinto sacro dedicato alla divinità e accumularli vicino alla Porta Stercoraria. Per riaccendere il fuoco sacro bisognava crearlo ex novo con l'utilizzo di specchi concavi che concentravano i raggi del sole sul punto in cui doveva ardere la fiamma. 

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fig.43

Non esiste una raffigurazione di Vesta; sappiamo che è stato il re Numa Pompilio a introdurre il culto a Roma e che originariamente le vestali erano in numero di due per poi divenire sei durante il regno di Servio Tullio. Le prime due vestali della storia si chiamavano Gegania e Verenia. La sacerdotessa più anziana era molto onorata e aveva il titolo di vestalis maxima. Erano scelte tra le bambine appartenenti alle famiglie aristocratiche tra i 6 e i 10 anni sorteggiandone i nomi davanti al Senato. Le prescelte erano condotte in processione fino al tempio di Vesta, venivano loro tagliati i capelli per poi appenderli ad un albero vicino (arbor capillata). Il loro servizio durava trent'anni ed era suddiviso in tre fasi di 10 anni ciascuno: iniziazione, esercizio del sacerdozio e ammaestramento delle novizie. Erano donne alquanto libere perché potevano uscire dal tempio anche se avevano l'obbligo di rientrarvi per dormire; non potevano assolutamente sbagliare nell'eseguire un rituale altrimenti erano fustigate anche se non pubblicamente. Erano ricche e molto stimate, avevano a disposizione degli schiavi, viaggiavano a Roma sulle bighe e, in occasione degli spettacoli, avevano diritto a posti riservati. Potevano indossare abiti eleganti, avere capelli lunghi (cresciuti dopo l'iniziazione che prevedeva la tonsura) e pettinati in un'elegante acconciatura chiamata seni crines (capelli divisi in sei trecce) (fig.44)

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fig.44

Inoltre, indossavano l'infula, una fascia bianca piegata in sei parti che circondava il viso e che cadeva dietro le orecchie. Il siffibulum, invece, era un velo bianco quadrangolare con bordi rossi indossato quando officiavano i riti sacri. Le vestali potevano testimoniare in tribunale e possedere proprietà private. Non indossavano gioielli o abiti sgargianti e dovevano mantenere un comportamento severo e modesto. La loro casa era accessibile solo a donne libere prive di sandali e al pontefice massimo; tuttavia, il luogo in cui bruciava il fuoco, il penus, ove erano custoditi gli amuleti che proteggevano la città (tra cui c’era un fallo sacro), erano interdetti anche a lui. Compito delle vestali era quello di preparare la farina che si cospargeva sul capo degli animali destinati ai sacrifici (mola salsa).  Esse dovevano rimanere vergini fino alla fine del loro mandato per non contaminare il fuoco sacro di Vesta, poi potevano anche sposarsi, avere figli o scegliere di vivere come donne libere. La loro “carriera” terminava a 36, 37 o al massimo 40 anni. Nel caso in cui la lettiga su cui viaggiavano avesse incontrato un condannato a morte, l'uomo sarebbe stato graziato perché diversamente avrebbe contaminato la purezza della sacerdotessa. Queste donne erano molto più emancipate rispetto alle loro contemporanee (pensate: potevano addirittura fare testamento!) perché dal momento in cui erano consacrate non erano più sotto la potestà paterna, ma su di loro vigilava comunque il pontifex maximus. Nel caso in cui fossero rimaste incinta erano considerate ree di incesto ed erano murate vive: questo perché, essendo delle sacerdotesse prestigiose, solo il dio degli Inferi poteva occuparsi della loro morte. Dopo aver attraversato la città su una lettiga chiusa la donna era condotta al campus scelleratus (Castro pretorio), qui veniva fatta scendere per ordine del pontefice massimo in una camera sotterranea dotata di letto, acqua, pane, olio, latte e di una fiaccola per poi essere murata viva (fig.45).

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fig.45

La prima vestale messa a morte di cui siamo a conoscenza si chiamava Pinaria ed è vissuta sotto  Tarquinio Prisco. Nel V secolo a.C. hanno fatto la stessa fine Oppia Opimia e Albinia. L'ultima si chiamava Celia Concordia ed è morta nel IV secolo d.C. Gli amanti delle vestali morivano davanti al pubblico ludibrio sferzati da frustate. Un'ultima curiosità sull'argomento: secondo alcuni studiosi il personaggio della fiaba di Cenerentola, scritta da Pérrault, prenderebbe spunto proprio dalle vestali romane: infatti, Cenerentola deriverebbe da cendre in francese (=cenere) perché dormiva nelle ceneri (simbolo di purezza). Cenerentola era obbligata a vivere accanto al focolare come le vestali e, inoltre, al pari di queste ultime, come succedeva in molti casi, riesce a contrarre un matrimonio prestigioso. 

Culti religiosi e pregiudizi

Come ultima curiosità segnalo la presenza di iscrizioni in cui le donne appaiono nelle vesti di dedicanti. Esisteva un santuario, edificato lungo la valle del fiume Trebbia nell'Appennino emiliano, dedicato a Minerva Medica Memor Cabardaciensis (da Cabardiacus, l’odierno Caverzago) in cui si recavano le donne con problemi di salute. Ciò é attestato dal termine medica mentre memor ci suggerisce anche una funzione oracolare. Si legge di una certa Celia Giuliana, guarita grazie alle medicine suggerite dalla dea mentre a Tullia Superiana erano cresciuti i capelli (le donne nutrivano un particolare orrore per l'alopecia). Si tratta probabilmente di un santuario con accanto una vera e propria farmacia in cui i medicamenti erano preparati dalle stesse sacerdotesse che fornivano alle donne assistenza medica quando non potevano permettersi cure costose impartite spesso da medici greci immigrati. Alla fine dell'età repubblicana iniziano poi a diffondersi a Roma culti provenienti dalla Tracia, dalla Tessaglia e, soprattutto, quello egiziano di Iside. Le donne in trance facevano da tramite con il mondo del divino, ma ad interpretare i loro oracoli erano sempre gli uomini (come accadeva a Delfi con la Pitia). Molto diffuso era il tabù delle mestruazioni: le donne col ciclo facevano inacidire il vino e isterilivanno campi e frutteti; si credeva inoltre che il sangue mestruale poteva essere usato come veleno o per creare pozioni per provocare l'aborto.

Le più fortunate

Oltre alle vestali possiamo dire che all’epoca della Roma repubblicana erano fortunate le donne rimaste vedove o quelle sterili ripudiate dal marito. Una volta divorziate, esse potevano gestire la loro vita in maniera più libera scegliendosi come amanti giovani nobili e facendo affari grazie a liberti prestanome che firmavano in loro vece i contratti. Le donne più ricche e colte gestivano salotti e circoli di cultura, possedevano ville sul Golfo di Napoli e intervenivano indirettamente nella vita politica della città. Tuttavia, quelle che godevano di maggior rispetto erano le matrone che avevano generato una prole numerosa.

Donne romane protagoniste tra realtà e leggenda

Le origini di Roma: Acca Larentia e Rea Silvia

Negli annali che trattano i primi secoli della storia di Roma ci sono pochissimi riferimenti a nomi di donne. La nostra carrellata non potrebbe non cominciare se non con Rea Silvia (fig.46), figlia di Numitore, figlio a sua volta di Proca, il re di Albalonga e fratello del crudele Amulio.

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fig.46

Quest’ultimo spodestò Numitore e ne uccise i figli maschi per poi costringere l'unica figlia femmina, Rea Silvia, a divenire vestale per farla restare vergine così da non generare una prole che un giorno potesse reclamare il trono. Secondo la leggenda la fanciulla però venne messa incinta dal dio Marte. Preso atto del “fattaccio”, Amulio diede ordine di abbandonare i gemelli in una cesta lasciata poi in balia delle acque del Tevere.  A questo punto interviene la seconda donna della nostra storia: i due fratelli si salvarono miracolosamente perché furono allattati da una lupa e, in seguito, allevati dal pastore Faustolo e dalla moglie Acca Larentia (fig.47)

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fig.47

Secondo Dionigi di Alicarnasso Rea Silvia venne uccisa dopo il parto. Ma qual è la verità che si cela dietro questa storia? In realtà la lupa di cui parla la leggenda della fondazione di Roma sarebbe proprio Acca Larentia: con l'appellativo di lupa, infatti, nell'antichità ci si riferiva alle prostitute; quindi, è molto probabile che la moglie di Faustolo facesse questa professione intrattenendosi con i pastori del luogo. Ricordiamo ancora che con il termine lupa venivano indicate le prostitute sacre che lavoravano presso il tempio della dea Lupa (cui erano intitolati alcuni santuari nella Magna Grecia). Ad Acca Larenzia sono dedicate le feste dei Larentalia o Accalia che si tenevano il 23 dicembre nella zona del Velabro, dove si diceva fosse ubicata la tomba della donna (luogo tra i più antichi della città). Acca Larentia si concedeva ai pastori della zona, ma forse era anche una sacerdotessa della Lupa,  divenuta in seguito una semplice prostituta. 

Tra due fuochi: la storia delle Sabine 

All’epoca della fondazione di Roma (753 a.C.) la popolazione era prevalentemente maschile e non poteva di certo ambire a matrimoni con famiglie ricche dato che era composta da pastori, briganti e nullatenenti con nulla da perdere. Questo è il motivo per cui Romolo decise di rapire le fanciulle della popolazione confinante dei sabini (discendenti da Sparta), attirandole nell'Urbe con la scusa di un invito ai festeggiamenti in onore di Nettuno. Gli uomini che le accompagnavano erano stati obbligati ad entrare in città disarmati adducendo giustificazioni legate a motivi religiosi. Al segnale convenuto, nel bel mezzo della celebrazione, avvenne il rapimento e da lì ebbe origine l'ostilità tra i due popoli (fig.48). Durante una battaglia le donne sabine si interposero tra i due schieramenti nemici implorando la pace: esse ormai erano mogli dei romani, ma rimanevano pur sempre figlie e parenti dei sabini.  Fu così che, grazie a loro, si addivenne alla pace.

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fig.48

Tarpea la traditrice

La nostra storia è ambientata all’epoca del ratto delle sabine. Figlia di un comandante di Roma, la giovane fanciulla fu attratta dalla visione dei braccialetti d'oro indossati sul braccio sinistro dai soldati sabini. Ella, dunque, li barattò in cambio di un atto di tradimento. Secondo gli accordi presi, infatti, Tarpea avrebbe ottenuto i monili se avesse aperto di nascosto ai nemici una delle porte di Roma. Quando però la donna andò a reclamare il suo premio, per tutta risposta i sabini le lanciarono addosso tutto quello che indossavano e impugnavano col braccio sinistro ovvero i braccialetti e i pesanti scudi branditi. Il suo corpo venne gettato da una rupe che prese il suo nome e dalla quale, da quel momento, saranno scagliati tutti i traditori della città (fig.49).

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fig.49

Un esempio di donna virtuosa: la storia di Lucrezia

Nel 509 a.C. i soldati romani stavano assediando la città di Ardea. In un momento di pausa dalla guerra si trovarono a banchettare alcuni giovani nobili insieme al figlio del re Tarquinio il Superbo. Eccitati dal vino, i soldati decisero di ritornare durante la notte nell'Urbe e di fare un'improvvisata alle loro mogli per controllare se il loro comportamento fosse ligio ai doveri di una matrona romana. Mentre tutte le mogli furono sorprese a gozzovigliare, l'unica trovata tutta dedita a filare e a tessere insieme alle ancelle fu Lucrezia, la moglie di Collatino. Sesto, il figlio di Tarquinio il Superbo, si invaghì follemente della donna e, di nascosto dal marito, una notte la andò a trovare e, con un pretesto, le chiese di fermarsi a dormire. Lucrezia, ingenua, per dovere di ospitalità acconsentì alla richiesta, non pensando di divenire oggetto delle avances di Sesto Tarquinio. I ripetuti rifiuti da parte della donna di cedere alle voglie del malvagio portarono quest’ultimo a ricattarla se non avesse acconsentito ai suoi desideri: l'avrebbe uccisa e poi avrebbe messo accanto al suo corpo il cadavere di uno schiavo. In seguito, egli avrebbe raccontato la sua versione dei fatti: aveva sorpreso Lucrezia con l'amante in flagranza di adulterio e aveva ucciso entrambi per vendicare l'onta subita da Collatino, marito di Lucrezia, nonché suo miglior amico. In seguito al ricatto Lucrezia cedette, ma in preda alla vergogna per il disonore (lei, pudica e fedele, simbolo della matrona perfetta, era stata violata!) il giorno dopo richiamò a casa il marito e il padre. Dopo aver raccontato i fatti com'erano realmente accaduti, la giovane si tolse la vita trafiggendosi il cuore con un coltello (fig.50). L'episodio fece così scalpore da essere la causa, secondo la leggenda, della cacciata da Roma di Tarquinio il superbo, l'ultimo re etrusco, insieme ai suoi figli (fatta eccezione per Sesto che venne ucciso). Nacque così la Repubblica romana.

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fig.50

Tullia, la Lady Macbeth romana

Lucio Tarquinio, futuro ultimo re di Roma di origine etrusca col nome di Tarquinio il Superbo, aveva sposato Tullia maggiore, la figlia più grande del re in carica Servio Tullio mentre suo fratello aveva contratto matrimonio con Tullia minore, la sorella più giovane. Quest'ultima era assai ambiziosa e malvagia al punto tale da allearsi con Tarquinio, divenire la sua amante e ordire un complotto al fine di uccidere i rispettivi coniugi. E così fu. A completamento del loro piano i due pianificarono l'omicidio di Servio Tullio. Tarquinio si recò ad una seduta del Senato e, convinto di avere dalla sua parte un folto manipolo di sostenitori, si sedette impunemente sul trono regale autoproclamandosi il nuovo re, ma le cose andarono diversamente. Quando arrivò Servio Tullio iniziò una vera e propria colluttazione: Servio Tullio fu ferito e fatto cadere dalle scale per mano di Tarquinio e, successivamente, il suo cadavere fu calpestato dal carro che trasportava Tullia, la figlia malvagia, proprio dietro ordine di quest'ultima (fig.51). Da questa storia emerge una figura di donna agli antipodi del modello della matrona romana.

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fig.51

La donna e la “virtù” del silenzio: la storia di Tacita Muta 

Il mito racconta che il dio Giano aveva una moglie di nome Giuturna, una ninfa che viveva in una fonte che sgorgava nella zona corrispondente ora al foro romano. Dalla loro unione nacque Fons, il cui fratellastro era Tiberino, il dio del fiume Tevere, in onore del quale ogni anno venivano celebrate le Fontinalia e fu costruito un tempio fuori le mura. Giove si incapricciò della ninfa e ne fece la sua amante. A tutte le ninfe venne ordinato di tacere della cosa per non incorrere nell'ira di Giunone, ma ce ne fu una, dal nome di Lara, che andò a spifferare la storia. Giove decise allora di punire la pettegola strappandole la lingua e catapultandola nell'Ade: da allora prese il nome di Tacita Muta e diventerà il simbolo di quello che gli uomini desiderano da sempre imporre alle donne: la “virtù” del silenzio (fig.52). A questa divinità è dedicata la festa della feralia (giorno delle offerte): si tratta dell'ultimo giorno dei Parentalia (vedi paragrafo calendario religioso romano della lezione Antica Roma Le origini L'età monarchica L'età repubblicana Storia La religione Cinema e teatro).

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fig.52

Clelia, l’eroina riscoperta nel periodo fascista

Quando Tarquinio il Superbo fu esiliato da Roma nel VI secolo a. C. cercò aiuto presso Porsenna, il re etrusco di Chiusi. Durante la guerra contro l'Urbe furono fatte ostaggio alcune giovani fanciulle romane, tra cui Clelia (fig.53). Il conflitto stava volgendo a favore di Porsenna, ma le due parti ad un certo punto giunsero ad un accordo che prevedeva la restituzione a Veio delle terre che le erano state sottratte, un indennizzo da versare a Tarquinio, la consegna degli ostaggi come garanzia di rispetto per l'accordo. Porsenna, dal canto suo, avrebbe allontanato le truppe etrusche dal Gianicolo dove si erano insediate. Un giorno Clelia e le altre fanciulle tenute in ostaggio chiesero di poter fare il bagno in un fiume e riuscirono ad ottenere che i soldati si allontanassero per senso di pudicizia. Approfittando della situazione le fanciulle raggiunsero a nuoto Roma, ma qui non vennero ben accolte perché non avevano rispettato i patti siglati con gli etruschi, ragione per cui furono rimandate indietro. Porsenna però, ammirato dal loro coraggio, decise di non punirle. La storia rivela una certa misoginia perché, secondo il giudizio del popolo romano, le donne in questa situazione avevano agito seguendo la loro indole: si erano comportate in maniera avventata senza rispettare quanto deciso negli accordi di guerra. Clelia, tuttavia, divenne un'eroina idolatrata dai fascisti e modello di riferimento per le nuotatrici in un periodo storico in cui anche la gioventù femminile era educata agli sport: pensate che in queste vesti prese ad esaltarla il giornale del “Littoriale”!

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fig.53

La potenza dell’amore delle mamme: la storia di Veturia

La vicenda è ambientata stavolta nel V secolo a.C., quando Gneo Marcio Coriolano, abile comandante di famiglia patrizia, venne accusato di tradimento dai tribuni della plebe e fu costretto all'esilio. Mise allora al servizio dei Volsci, nemici di Roma, le sue brillanti capacità militari e di stratega. Quando l’Urbe stava per capitolare avvenne una cosa assai singolare: le donne romane si misero in moto per salvare la patria. Fu così che Veturia e Volumnia, rispettivamente la madre e la moglie di Coriolano, andarono incontro al condottiero cercando di convincerlo a risparmiare la città perché le donne della sua famiglia rischiavano di perdere la vita. Le fonti raccontano l'incontro commovente tra madre e figlio e ricordano soprattutto come Coriolano avesse voluto parlare solo con Veturia, neanche con la moglie (fig.54)

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fig.54

Questo episodio ci ricorda l’immenso rispetto e l’amore che l'uomo romano provava nei confronti della propria madre, sentimenti superavano di gran lunga l'affetto per la moglie che, all’epoca, era soggetta sia ai maschi della famiglia che alla suocera. Ciò che accadde è anche un esempio del fatto che le donne romane avevano il divieto di esprimere il loro pensiero in pubblico, cosicché potevano intervenire nei fatti politici solamente indirettamente.  Dopo aver discusso tra loro, esse hanno trovato una soluzione riuscendo ad evitare la conquista di Roma da parte dei Volsci. Ma che fine fece Coriolano? Egli decise di porre termine all'assedio della città e avviò trattative di pace; tuttavia in seguito fu assassinato da un gruppo di invidiosi a causa della notorietà da lui raggiunta per merito delle sue imprese belliche.

La matrona perfetta: Cornelia, la madre dei Gracchi

Questa volta siamo nel II secolo a.C. e parliamo di Cornelia, figlia del famoso Scipione l'Africano e moglie del console Sempronio Gracco. Purtroppo, dei 12 figli avuti, solo tre avevano raggiunto l'età adulta: tra questi c’erano i famosi tribuni della plebe Tiberio e Caio Gracco (che fecero comunque una brutta fine vedi lezione Antica Roma Le origini L’età monarchica L’età repubblicana Storia La religione Cinema e teatro). Grazie ai suoi natali e al matrimonio contratto, Cornelia apparteneva alla “Roma bene”. Donna colta e affascinante, aveva creato anche un circolo culturale prestigioso ove era considerata un modello da imitare per le sue virtù e per il fatto che, rimasta vedova, non aveva voluto più risposarsi pur avendo ricevuto proposte di matrimonio da personaggi prestigiosi: pensate che arrivò addirittura a rifiutare il re d’Egitto Tolomeo VIII Evergete! Cornelia dedicò tutta la sua vita all'educazione dei  figli, istruiti alla cultura greca, e si racconta che in una riunione tra matrone, ognuna metteva in mostra i propri gioielli lodandone il pregio fino a che la stessa intervenne affermando che i suoi beni più preziosi erano i suoi figli (fig.55)

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fig.55

Cicerone la ricorda come abile nell'arte della retorica. Alla morte del figlio Tiberio Cornelia andò a vivere in Campania in una villa a Capo Miseno e qui prese a corrispondere con il figlio Caio e pare che non fosse molto d'accordo con le sue scelte politiche. Se questa notizia fosse vera si tratterebbe del primo epistolario privato della storia scritto da una donna: un esempio femminile, dunque, non solo di matrona eccellente, ma anche di donna colta, addirittura fondatrice di un circolo culturale. La storia di Cornelia ci rivela anche come, nel II secolo a.C., c'erano già donne in grado di leggere e scrivere e dotate di una vasta cultura.

L’ “affaire” dei Baccanali

Tra i processi di avvelenamento più famosi della storia ricordiamo quello avvenuto nel 186 a.C. che coinvolse seguaci del culto di Bacco. Publio Ebuzio, il protagonista principale della vicenda, era rimasto orfano di padre, così la madre Duronia si era sposata in seconde nozze con Tito Sempronio Rutilio, il quale approfittò dell'occasione per divenire tutore del ragazzo e impadronirsi della sua eredità per poi dilapidarla in gozzoviglie. Non contento di ciò, per nascondere i suoi imbrogli, il patrigno lavorò affinché Ebuzio fosse distratto da altri interessi e lo introdusse al culto di Bacco, di provenienza greca, con la complicità della madre. Fortunatamente Ebuzio venne messo in guardia dalla sua amante Fecenia, una liberta di origine spagnola la quale, in passato, aveva preso parte a questi rituali che spesso agivano contro la morale pubblica.  Il ragazzo allora si rifiutò di far parte della setta e venne cacciato di casa. Decise allora di rivelare tutto alle autorità competenti: fu così che il console Spurius Postumius Albinio iniziò un’indagine degna di un racconto poliziesco: si fece raccontare tutta la vicenda indirettamente dalla zia di Ebuzio (usando come tramite sua suocera Sulpicia, molto amica della donna), sentì la versione di Fecenia che rivelò tutte le atrocità commesse dalla setta (a quel tempo, diversamente dal passato, aperta anche gli uomini) (fig.56). Secondo le fonti i condannati furono più di 7000: quelli colpevoli dei reati più gravi furono condannati a morte. Le donne vennero affidate alle rispettive famiglie che le fecero fuori per evitare l'onta. Il culto di Bacco venne proibito fino all'epoca di Giulio Cesare che lo rese di nuovo legale.

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fig.56

Clodia la vedova nera (fig.57)

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fig.57

Nel periodo tardo repubblicano le donne cominciarono ad essere più emancipate perché, a causa delle numerose guerre di conquista intraprese dall'Urbe, molti uomini morivano in battaglia e, delle ingenti ricchezze che affluivano nell’Urbe, usufruivano soprattutto le vedove. Queste ultime, infatti, iniziano a godere di ingenti patrimoni personali e diventano ottimi partiti per gli “uomini nuovi” che hanno bisogno di finanziamenti per sostenere il loro cursus honorum. Prima del I secolo a.C. una donna non poteva parlare in pubblico e comunicare con uomini se non con i membri della propria famiglia (vedi episodio di Veturia e Coriolano). Ora le cose cambiano: possono delegare agli schiavi la cura della casa mentre loro sono più libere di interessarsi ad altre cose. Un esempio è la famosa Clodia, sorella del tribuno Clodio Pulcro, meglio conosciuta come la Lesbia cantata da Catullo nei suoi carmi. Clodia conosce Catullo nel 62 a.C. a Verona: lei è più grande di sette anni. Il poeta la rende protagonista delle sue opere anche se era sposata e questo andava contro la morale tradizionale. Siccome la famiglia di provenienza era di origine patrizia (apparteneva alla gens Claudia) Claudio, per intraprendere la carriera politica e diventare tribuno della plebe (magistratura accessibile solo ai plebei), si fece adottare da un plebeo e così passo a chiamarsi Clodio mentre la sorella da Claudia prese il nome di Clodia. Terza figlia femmina di una famiglia composta anche da tre fratelli (tra cui per l’appunto Claudio/Clodio), Clodia nacque all'incirca nel 94 a.C. Viene descritta in maniera negativa da Cicerone a causa del dissidio che quest’ultimo ebbe con il fratello Clodio. Secondo alcuni l'astio tra i due era causato dal fatto che Clodia aspirava inutilmente a sposare Cicerone (anche se poteva però benissimo essere il contrario). È vero anche che, quando Cicerone fu accusato da Clodio di aver condannato a morte i partecipanti alla congiura di Catilina (vedi lezione Antica Roma Le origini L’età monarchica L’età repubblicana Storia La religione Cinema e teatro) senza prima aver sottoposto gli imputati al giudizio del popolo, come voleva la legge di Roma, l'oratore venne condannato alla perdita delle sue proprietà. Durante l’esilio Cicerone scrisse ben sei lettere a Clodia pregandola di aiutarlo a rientrare e di intercedere presso il fratello, ma fu tutto inutile. Quando nel 57 a.C. Cicerone rientrò dall'esilio decise di prendere le difese dell'amante di Clodia Marco Celio Rufo, accusato di aver preso parte ad una congiura e di aver tentato di avvelenare la stessa Clodia. La donna accusò Rufo di averle chiesto dei soldi che erano serviti in parte ad uccidere un certo Dione per motivi politici e in parte per acquistare un veleno per farla fuori. Clodia a Roma era una donna temuta e odiata perché agli antipodi dell’ideale della perfetta matrona ideale. Disinibita dal punto di vista sessuale, ella aveva fatto della sua casa sul Palatino un salotto mondano. Cicerone, in una orazione durante il processo, l'accusa di intrattenere una relazione incestuosa con il fratello Clodio, di aver avvelenato il marito (Quinto Cecilio Metello, un cugino facoltoso sostenitore di Pompeo) e di volersi vendicare di Rufo per essere stata abbandonata. Plutarco afferma addirittura nella Vita di Cicerone che il soprannome di Clodia era “Quadrantaria”, da quadrante, un quarto di asse ovvero la tariffa minima con cui si facevano pagare le prostitute di livello più basso. 

La storia di Marzia, il primo caso di utero in affitto (fig.58)

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fig.58

La sterilità era un vero e proprio dramma per la coppia romana ed è per questo che in tali frangenti si ricorreva ad una soluzione simile all'odierno “utero in affitto”: è il caso di Quinto Ortensio Ortalo, oratore nonché grande amico di Cicerone, il quale chiese a Catone di dargli in prestito la moglie Marzia, donna assai prolifica, al fine di poter generare un figlio con lei. Ci troviamo, purtroppo, dinanzi al solito pregiudizio secondo il quale la donna era presa in considerazione solo per la capacità di procreare (dello stesso avviso erano anche gli antichi greci). Catone, prima di acconsentire alla proposta, chiese il consenso al padre di Marzia (ma non a Marzia!), dopodiché la donna divorziò dal marito per unirsi in matrimonio ad Ortensio, dal quale nasceranno due figli. In realtà, quando Marzia entrò a casa di Ortensio, era già incinta di Catone. La storia ha un lieto fine perché quando morirà Ortensio, Marzia si sposerà nuovamente con Catone, di cui pare fosse veramente innamorata, portandogli un bel gruzzolo avuto in eredità. In conclusione, la figura di Marzia divenne l’emblema della matrona che dedica la sua intera vita alla creazione di una prole che potesse rendere gloriosa Roma e, in nome di questo ideale, era pronta a sacrificare i suoi sentimenti.

Ortensia, la prima donna avvocato della storia (fig.59)

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fig.59

Nel 42 a.C. i triumviri emanarono un provvedimento straordinario rivolto a far pagare tasse ingenti a circa 1400 donne abbienti dopo essersi accertati del valore delle loro proprietà. L'azione serviva a rimpolpare le casse dell'esercito di Roma. Chi avrebbe dichiarato il falso sarebbe stato punito e le delazioni sarebbero state oggetto di ricompensa. Le matrone coinvolte cercarono di ottenere l'appoggio delle “first ladies” del momento (tra cui Ottavia, la sorella di Ottaviano) per arrivare ad una mediazione, ma non riuscirono nell'intento. Contrariamente all'etica del tempo si presentarono presso il foro, davanti ai triumviri, per sostenere la loro causa ed è qui che si mette in luce la nostra protagonista: Ortensia, figlia dell'oratore Quinto Ortensio Ortalo, di cui abbiamo già parlato. La donna, degna figlia del padre, tenne una brillante orazione dopo essere stata scelta come rappresentante della delegazione femminile. Come abbiamo già detto, fino a questo momento parlare in pubblico per una donna era considerato qualcosa che andava contro la pax deorum perché tale comportamento avrebbe sovvertito l'ordine naturale delle cose. Agendo con scaltrezza Ortensia, nel suo discorso, si mostra ligia e rispettosa delle tradizioni: nella linea difensiva ella sostiene che, a causa delle guerre civili intraprese da Roma, si era fatto strage di migliaia di mariti, figli e padri, per cui l'unico mezzo di sostentamento per le matrone rimaste vedove erano i patrimoni che avevano ereditato, senza i quali non avrebbero potuto condurre uno stile di vita consono al rango di appartenenza. Il governo doveva tener conto di questa loro richiesta perché le mogli avevano, nel corso degli anni, generato una prole numerosa che, andando a combattere nell’esercito, aveva reso gloriosa Roma. Inoltre, sempre a suo dire, le donne romane dovevano essere esonerate dal pagare le tasse perché non erano ammesse alle magistrature essendo prive di diritti politici. Esse non si erano mai rifiutate di partecipare a donazioni volontarie di gioielli quando l'Urbe, in passato, si era trovata in difficoltà economiche ma mai, fino a quel momento, erano state imposte tasse sulle proprietà terriere e sulle loro doti, patrimonio necessario alla loro sopravvivenza. Ortensia ribadisce ancora che la richiesta era inaccettabile anche perché tale tassazione era volta a finanziare non guerre volte alla conquista di terre straniere bensì conflitti civili. Come si risolse alla fine la questione? I triumviri aggiornarono la seduta per rivedere il provvedimento che alla fine ridusse a meno di un terzo il numero delle donne oggetto della tassazione. L'episodio ci fa capire che a Roma c'era un cospicuo numero di matrone abbienti che facevano parte del più importante ordine censitario; probabilmente molte di loro erano state così scaltre da riuscire a raggirare una legge, detta Voconia, che vietava alle donne che appartenevano alla prima classe censitaria di ereditare patrimoni dai mariti preferendo loro i parenti in linea maschile se pur lontani.

Una donna dalla tempra “virile”: il caso di Porzia (fig.60)

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fig.60

Figlia di Marco Porzio Catone Uticense, colui che si suicidò pur di non soccombere alla dittatura di Cesare, Porzia sposa nel 45 a.C. Marco Giunio Bruto che l’anno dopo ordirà l'assassinio del dittatore nelle idi di marzo. Il suo primo marito, Marco Calpurnio Bibulo, fu eletto console insieme a Cesare, ma quest'ultimo manovrò così abilmente le cose che lo costrinse a mettersi da parte. Porzia rimase vedova nel 48 a.C. ed ebbe modo di risposarsi. Convinse Bruto a partecipare alle idi di Marzo (vedi lezione Antica Roma Le origini L’età monarchica L’età repubblicana Storia La religione Cinema e teatro). Secondo Plutarco Porzia chiese al marito di essere messa al corrente del  piano omicida in modo da potergli dare supporto. Ella afferma di fare questa richiesta in quanto moglie e non di concubina: marito e moglie devono sostenersi a vicenda e condividere gioie e dolori. Fu così che Porzia fu l'unica donna ad essere messa al corrente del piano. Inoltre, per dimostrare a tutti i costi al marito che, in caso di tortura sarebbe stata così forte da non far trapelare il segreto, arrivò a ferirsi la coscia e a sopportare il dolore. Porzia ci tiene a sottolineare il fatto di aver ereditato dal padre quella grande forza d’animo che aveva portato quest’ultimo a suicidarsi strappandosi le viscere dall'addome nel nome della libertà. Quando, inoltre, ella apprese la notizia della morte di Bruto, si suicidò ingerendo carboni ardenti! Il caso di Porzia ci mostra ancora una volta la forte misoginia che caratterizza la mentalità romana: la sua figura veniva osannata non per la sua forza di carattere, ma perché voleva emulare il comportamento del padre.

Fulvia, la prima donna al potere

Fulvia ebbe come primo marito Publio Clodio Pulcro, fratello di quella Clodia di cui abbiamo già parlato, che fu ucciso nel 52 a.C. Sposò in seconde nozze Gaio Scribonio Curione, il tribuno della plebe morto in Africa nel 49 a.C. Il corpo del primo marito venne esposto pubblicamente sporco di sangue (al contrario di quanto prescrivevano le usanze religiose che invece ne imponevano la pulitura e la vestizione dignitosa). Tutto questo fu fatto appositamente, dicono alcune fonti, per impressionare la folla e aizzarla contro i nemici di Publio. Il terzo matrimonio da lei contratto fu con Marco Antonio (anche se si diceva che i due erano amanti già da tempo).  Pare che Fulvia avesse un certo ascendente sul condottiero. Cicerone ce ne fa un ritratto pessimo: avida, infida, ambiziosa, dalla tempra simile a quella di un maschio. Apparteneva ad una famiglia di origine plebea che aveva fatto carriera. Quando Marco Antonio fu costretto nel 43 a.C. a fuggire in Gallia con il rischio di essere dichiarato nemico pubblico di Roma Fulvia non esitò, insieme alla suocera Giulia, ad andare a supplicare i politici più influenti della città al fine di salvarlo. Da Marco Antonio ebbe due figli: Antillo (piccolo Antonio) e Iullo (chiamato così per sottolineare il legame della sua casata con Giulio Cesare). Donna molto scaltra, seppe sfruttare i “contatti” giusti e, nel momento in cui morì Giulio Cesare, ricorse anche a mezzi poco leciti per rimanere a galla. Cassio Dione parla della ferocia con cui si accanì contro il capo mozzato di Cicerone, ucciso per ordine di Marco Antonio nel 43 a.C., sottolineando il fatto che aveva utilizzato le sue forcine per trafiggere quella lingua che in vita l'aveva aspramente criticata (fig.61)

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fig.61

Nel 41 a.C. quando scoppia la guerra di Perugia, Fulvia era la donna più potente di Roma. Il conflitto ebbe origine dallo scontro tra Lucio Antonio (console e fratello di Marco Antonio), Marco Antonio e Fulvia da una parte e Ottaviano dall’altra. Quest’ultimo, infatti, per compensare i suoi veterani e quelli di Marco Antonio che avevano partecipato alla battaglia di Filippi, fu costretto a sequestrare appezzamenti di terra ubicati in Etruria, creando malcontento nella popolazione. Di questo approfittarono Fulvia e Lucio Antonio anche perché temevano che, in questa maniera, i veterani sarebbero stati legati solo ad Ottaviano e questo avrebbe sminuito il potere di Antonio. Alla fine del conflitto uscì vincitore Ottaviano che perdonò i suoi nemici. Antonio riuscì a cavarsela proclamando la sua innocenza e affermando che non era stato messo a conoscenza delle trame ordite dalla moglie. Appiano afferma che in realtà era stata Fulvia a spingere al contrasto Lucio Antonio perché, se fosse scoppiata una guerra in occidente, il marito Marco Antonio si sarebbe allontanato da Cleopatra (sua amante) perché costretto a rientrare dall'oriente. Molti storiografi, tra cui Plutarco, dipingono Fulvia come una donna che andava oltre quello che doveva essere il suo ruolo di matrona: interveniva direttamente nelle vicende politiche di Roma e voleva governare manipolando chi le stava al fianco. Secondo le cronache morì di dolore dopo essere stata abbandonata da Marco Antonio che le aveva preferito Cleopatra.

Il teatro

La struttura

In Grecia commedie e tragedie erano rappresentate in occasione di festività religiose mentre a Roma erano considerate ludus, un divertimento. Gli organizzatori erano edili o pretori che assoldavano un capocomico con contratto e si assumevano i costi così da rendere gratuito l'ingresso. Le rappresentazioni avvenivano nel Circo Massimo durante i ludi romani. In generale il mestiere dell’attore era considerato infamante, ma c’erano delle eccezioni: Roscio era molto stimato da Cicerone, tanto da essere accolto nel suo circolo. I primi teatri romani erano realizzati con impalcature in legno destinate ad essere distrutte dopo le feste. Il primo teatro in muratura é quello fatto costruire da Pompeo nel 55 a.C. vicino ad un tempio religioso. Al contrario dei greci, i romani non sfruttavano i declini naturali, ma costruiscono in piano. La struttura portante esterna si caratterizzava per una serie di arcate sovrapposte: dalla prima si accedeva al teatro e, salendo le scale, si arrivava alla parte alta della cavea. All'interno lo spazio dell'orchestra, rispetto al teatro greco, viene dimezzato, diventa semicircolare ed è destinato agli spettatori più importanti perché il coro oramai è quasi del tutto assente. La skené greca, ora scenae frons, la facciata dell'edificio scenico, tenderà a divenire sempre più imponente. In essa appaiono tre porte: gli attori, attraversandole, entrano in scena. La porta centrale è detta regia mentre le due porte laterali si chiamavano hospitalia ed erano collocate su due specie di ali attraverso le quali entravano i personaggi che provenivano dalla città o dal porto. I vomitoria erano degli sbocchi coperti a volta attraverso i quali gli spettatori entravano ed uscivano dal teatro. La struttura poteva essere coperta da una tenda che partiva dal tetto e arrivava  ad estendersi nella galleria (fig.62 e 63)

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fig.62
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fig.63

Storia

Tra le prime forme teatrali ricordiamo l’atellana (da Atella, nome della città della Campania). Essa consisteva in battute recitate da attori di professione sulla base di un canovaccio. I protagonisti erano maschere fisse (come, ad esempio, il vecchio rimbambito Pappus). Molto probabilmente dalle atellane deriva la futura commedia dell'arte, ma ancor prima influenzerà le commedie di Plauto. È l'unica forma di teatro in cui gli attori che recitavano non erano privi di onorabilità in quanto l’atellana era il genere teatrale romano più antico. C'era poi il fescennino, dal nome di una città dell'Etruria o da fascinum (rito contro il malocchio): gli attori vestiti da contadini si scambiavano battute scurrili durante le feste consacrate alle divinità agresti e portavano in processione anche simboli della fertilità (qualcosa di molto simile caratterizza le origini della commedia greca vedi lezione Antica Grecia La donna Il teatro). Poi c'era anche il mimo, coltivato soprattutto nell'Italia meridionale: questa forma teatrale era incentrata su personaggi privi di maschera che raccontavano tematiche di vita quotidiana. Tra i primi scrittori del genere teatro ricordiamo Livio Andronico (fig.64) (che era anche attore), Nevio ed Ennio. Livio Andronico era un greco di Taranto arrivato a Roma come schiavo presso la famiglia di Livio Salinatore il quale, quando lo affrancò, gli diede il nome di Livius (dalla sua gens). Andronico scrisse le palliate ovvero commedie che ricordavano argomenti greci (ad esempio Gladiolus= Lo spadino). Queste rappresentazioni non mettevano alla berlina la politica del tempo, ma si concentravano sulla caratterizzazione psicologica dei personaggi. Per la scrittura delle tragedie Livio Andronico si rifaceva al ciclo troiano anche se il suo modello principale era però Euripide. All’epoca era molto diffusa la pratica della contaminazione: nella trama si faceva cioè riferimento a scene famose di commedie e tragedie greche. In entrambi i generi le parti recitate si alternavano a quelle cantate (il coro però aveva perso l’importanza di cui godeva nella tragedia greca). Nel 207 a.C. Andronico scrisse un carme (vedi sitografia) in onore di Giunone Regina per invocare l'aiuto della dea contro Asdrubale (fratello di Annibale) nel pieno della seconda guerra punica. Quando il cartaginese venne sconfitto, il Senato regalò all'autore una casa sull'Aventino: in questa zona, ove era ubicato il tempio di Minerva, fondò il collegium scribarum histrionumque, l’associazione di attori e autori di teatro. 

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fig.64

Nevio (fig.65)nasce in Campania nel 275 a.C. Prese parte alla prima guerra punica e fu autore di teatro, soprattutto di palliate (ad esempio Stigmatias= Lo schiavo marchiato). Nelle sue commedie si serve della contaminatio: la più famosa era Tarantilla, in cui si parla di una ragazza di Taranto che fa girare la testa a due giovani romani; nell’opera la frivolezza della cultura della Magna Grecia (simboleggiata dalla donna) é contrapposta alla serietà dei costumi romani. Andronico scrisse tragedie che avevano come modello Euripide e narravano del mito troiano (un esempio é Equos Troianus) o l’avversione per i baccanali (vedi Lycurgus). Nevio fu il primo autore di drammi in cui gli attori indossavano la toga praetextae ovvero la toga con il bordo orlato di porpora, tipica dei magistrati romani (ad esempio Romulus). Un'ultima curiosità: la sua tragedia Equos Troianus nel 53 a.C. inaugurerà il primo teatro romano, costruito in muratura, dedicato a Pompeo. 

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fig.65

Quinto Ennio (fig.66) era originario della Magna Grecia. Nato a Rudiae (tra Brindisi e Taranto) nel 239 a.C., apparteneva ad una famiglia di ceto elevato. Partecipa alla prima guerra punica. Tornato a Roma, Ennio segue la cerchia degli Scipioni, aperti all'influenza della cultura ellenistica di cui era permeato anche Nevio e, grazie alla loro intercessione, viene messo a capo del collegium scribarum histrionumque fondato da Andronico. Scrisse commedie (ad esempio Caupuncula= l’ostessa) e tragedie che si ispirano al circolo troiano (Hecuba, Sabinae). I suoi punti di riferimento erano Euripide e l'adesione al sofismo (una corrente filosofica che metteva in discussione verità e certezze in merito alla religione, al concetto di conoscenza etc.). 

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fig.66

Mentre la letteratura si rivolgeva ad un pubblico aristocratico il teatro poteva contare su un seguito più vasto. La maschera tragica si caratterizzava per l'alta pettinatura a riccioli che incorniciava il viso e la barba pure modellata in riccioli. La bocca spalancata e i fori degli occhi davano l'idea di fissità e di terribilità.  Grazie agli alti coturni (calzari indossati dagli attori) i personaggi acquisivano una valenza “super umana” dovuta anche al fatto che il colonnato della scaene frons li incorniciava conferendo loro un aspetto di imponenza (fig.67)

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fig.67

Le manifestazioni di dolore e di collera all'interno della tragedia divennero via via sempre più esagerate per ovviare al pericolo della noia. Le commedie erano le più apprezzate. La loro trama consisteva in travestimenti, scambi di persona che coinvolgevano lenoni, prostitute, vecchi innamorati di fanciulle, servi al servizio di giovani padroni, parassiti perennemente affamati. Dagli abiti e la barba il pubblico capiva immediatamente il ruolo dei personaggi. Al centro della trama c'era solitamente un giovane, la cui maschera priva di deformazioni era caratterizzata da tratti delicati (così come avveniva per il personaggio della fanciulla). Lo scontro avveniva tra il servo del giovane (con una bocca ad imbuto) e il vecchio (caratterizzato da barba e parrucca bianche) elegantemente pettinato: entrambi ambivano a conquistare la fanciulla protagonista. Grazie alla sua furbizia il servo riusciva sempre a sconfiggere il vecchio e a far unire in matrimonio il giovane padrone e la fanciulla dopo averne scoperto, se schiava, la sua originaria nascita libera. Il parassita indossa una parrucca rossa e una maschera che ne sottolineava la perenne voracità: il suo obiettivo era essere invitato a pranzo per scroccare. La posizione eretta dell'attore indicava sicurezza, quella chiusa e piegata afferiva all’umiliazione e alla paura. I ruoli femminili si identificavano grazie ai visi imbellettati di bianco mentre gli schiavi avevano le gote rosse. L’andatura lenta e posata indicava un personaggio rispettabile. Lo schiavo saltellava e si agitava freneticamente. Il flauto accompagnava uno schiavo con il suono acuto e il vecchio con un suono grave. Non esistevano diritti d'autore in epoca antica: una volta che il drammaturgo passava il testo al regista, quest'ultimo poteva apportare tutte le modifiche che voleva. Il testo teatrale era destinato solo ad essere rappresentato e non letto: per questo motivo lo spettatore doveva capire chi stesse parlando e a chi si stava rivolgendo dai vocativi dei nomi dei personaggi, dall'azione scenica e dai particolari dell'abbigliamento. Va anche detto che all'epoca allo spettatore interessava capire la funzione personaggio più che il suo nome. Le manifestazioni teatrali avvenivano in concomitanza con altri spettacoli quali gare di pugilato o giochi di funamboli. Il choragus si occupava dell'allestimento scenico (costumi, maschere, effetti scenici). Il capocomico era detto dominus gregis: egli comprava la commedia insieme al diritto di rappresentarla ogni volta che voleva e ne trattava la vendita eventualmente con gli edili curuli. L’autore guadagnava solo nel momento della cessione del manoscritto in occasione della prima perché non godeva dei diritti sulle repliche.  Al centro della scena era collocato un altare, probabilmente ad un livello più alto per motivi funzionali alla trama: in alcuni drammi serviva, ad esempio, come rifugio a personaggi inseguiti dai loro nemici. Il tetto si simulava con l'uso di una scala appoggiata alla parte retrostante la facciata scenica. Lo scenario era sempre il medesimo e veniva riutilizzato. Vigeva l'unità di tempo perché l'azione scenica si svolgeva nell'arco di una giornata. Le scene all'interno di un edificio si svolgevano all'esterno ma erano immaginate all'interno. L'arrivo di personaggi con antenne o fiaccole faceva riferimento alle scene notturne dato che le rappresentazioni avvenivano in pieno giorno. Nel teatro romano manca la mechané (vedi lezione Antica Grecia Le donne Il teatro) e gli artifici cui ricorreva il teatro greco. Il ritmo dell'azione era molto serrato perché frutto dell'alternanza di parti dialogate e parti cantate; il tutto era accompagnato dalla musica.

Plauto (fig.68)

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fig.68

Nasce a Sarsina, allora in Umbria, nel 255 a.C. Il suo nome, Titus Maccius Plautus, forse deriva da Maccus, una famosa maschera popolaresca. Plautus potrebbe alludere ad un difetto fisico perché gli umbri chiamavano ploti coloro i quali avevano i piedi piatti. Un'altra spiegazione fa riferimento al termine plauti che indicherebbe i cani dalle orecchie penzolanti. Il nome Maccius potrebbe far pensare al suo ruolo di attore di atellane, ma lo scrittore non ha mai recitato nelle sue commedie, altrimenti le fonti ce lo avrebbero riferito (così come è successo per il caso di Livio Andronico). Sappiamo della sua condizione di indigenza tanto da essere costretto a vivere girando la mola di un mulino: la notizia però è assai discutibile (nelle sue commedie questa era la punizione a cui erano sottoposti gli schiavi). In conclusione, possiamo affermare con certezza che Plauto era di origine provinciale italica, di condizione modesta e lavorava in una compagnia teatrale. Tanto era divenuto famoso che pare che al corpus delle sue commedie i capocomici aggiungessero opere di altri autori spacciandole come sue. Molte sue opere sono andate perdute; inoltre non riportano né i nomi dei magistrati dell'epoca, né le occasioni per cui sono andate in scena, né hanno chiari riferimenti ad eventi contemporanei: tutto ciò crea problemi per l’attribuzione della datazione. Solo 21 commedie sono riconosciute come sue. Uno dei temi più frequenti su cui sono incentrate è quello della beffa: nell’ Asinaria (“commedia degli asini”) si raccontano gli intrighi orditi da un vecchio e un giovane ai danni della madre ricca e avara di una fanciulla. Nel Mercator (“il mercante”) e Mostellaria (“la commedia dei fantasmi”) al motivo della beffa si aggiunge quella del viaggio. Nel Mercator un giovane commerciante ritorna a casa dopo un lungo periodo, in cui era stato lontano per affari, con una bella schiava di cui si invaghisce il vecchio padre. In Mostellaria si narra di come uno schiavo riesca a salvare dai guai il suo giovane padrone. Gli intrecci hanno sempre una conclusione positiva. Se uno dei due innamorati è di condizione modesta, nel caso in cui avvenga l’agnizione (riconoscimento), alla fine della vicenda la coppia può unirsi in matrimonio (ad esempio se si scopre che la cortigiana protagonista è di nascita libera). Un esempio di tutto questo ne è Rudens (“la gomena”) in cui, grazie ad un baule, viene riconosciuto il vero status della fanciulla protagonista. Un altro tema plautino è il gioco dei sosia: nell'Amphitruo Giove si innamora di Alcmena e, per giacere con lei, prende le sembianze del marito Anfitrione. È Mercurio ad aiutare il dio nella sua impresa dopo essersi trasformato in Sosia, il servo di Anfitrione. Come si evince facilmente, gli intrecci non sono particolarmente elaborati perché il teatro romano aveva come scopo non quello di educare bensì di intrattenere un popolino (certo non colto) che accedeva gratuitamente agli spettacoli. Rispetto alla commedia nuova greca di Menandro (vedi lezione Dall'età alessandrina all'ellenismo) si preferiscono scene con battute scurrili e il ridicolizzare le gesta eroiche. Plauto, inoltre, fa uso della contaminazione, cioè dell'inserimento all'interno delle sue opere di scene desunte da altre commedie. Plauto non aveva appoggi politici e, per questo motivo, doveva mostrarsi molto attento quando commentava fatti della storia contemporanea. Nel Miles gloriosus e nell’Asinaria, scritti dopo la seconda guerra punica, si allude alla vittoria dell'esercito romano, tema molto apprezzato dal pubblico. Lo scrittore, inoltre, si mostra molto vicino a Catone quando nei Captivi allude alle spoliazioni operate dai governatori nei territori delle province amministrate. Nell'Aulularia si mostra contro l'abrogazione della Lex Oppia (vedi paragrafo La condizione femminile) nel momento in cui un personaggio afferma di considerare al pari di un flagello una moglie ricca che, in virtù della sua dote, pretende dal marito continue spese. Al pari di Catone, nell'Amphitruo critica i baccanali, disprezza quanti vivono in città e loda chi preferisce la campagna. Le trame plautine sono molto semplici: esse prevedono il passaggio di un bene (una donna o una somma di denaro) dal vecchio possessore (lenone o soldato) ad uno nuovo (un giovane) grazie all’agnizione o agli inganni escogitati da un servo furbo. Il linguaggio è quello del popolo, ma Plauto inventa anche dei vocaboli nuovi. Al centro delle sue commedie c'è anche il contrasto tra padri e figli. Solo nell'Amphitruo viene trattato l'adulterio femminile che, alla fine, viene perdonato: Alcmena, infatti, tradisce a sua insaputa Amphitruo con Giove e questo, alla fine, diventa motivo di vanto per il marito. Dalla loro unione, infatti, nascerà il semidio Ercole!

L’Aulularia

L’Aulularia (“commedia della pentola”) forse è una delle commedie più famose di Plauto. Nel prologo Il Lare domestico racconta agli spettatori quanto accaduto precedentemente e anticipa la trama. Purtroppo, dell'ultimo atto disponiamo solo di pochi frammenti in base ai quali gli studiosi hanno pensato ad un ravvedimento del protagonista. Ma in cosa consiste la trama dell'Aulularia? Protagonista è l’avaro Euclione, il quale ha trovato una pentola piena di monete d'oro che nasconde e custodisce gelosamente. Vive in perenne angoscia perché teme che qualcuno la possa scoprire per portargliela via. È un personaggio assai singolare: é così spilorcio da raccattare le unghie che gli vengono tagliate e rivendica le ragnatele della sua casa; non fa altro che sospettare di tutti e trascorre il suo tempo a sorvegliare la pentola cui cambia continuamente nascondiglio. È una persona irascibile e bisbetica, tratta malissimo i suoi servi e il cuoco. Euclione ha una figlia, Fedra, che è stata messa incinta da un giovane di nome Liconide durante le feste in onore di Cerere. Ella sta per partorire ma lui, tutto preso dal sorvegliare la pentola, non si accorge di quello che sta succedendo in casa sua. Fedra è stata chiesta in moglie dal ricco Megadoro che non pretende la dote. Mentre si stanno preparando le nozze casualmente Strobilo, il servo di Liconide, scopre la pentola di Euclione e gliela ruba. L’avaro, disperato, si rivolge allora al pubblico supplicandolo di aiutarlo e di rivelargli l'identità di chi gli ha sottratto il suo tesoro. Addirittura passa ad insultare gli spettatori affermando che tra il pubblico si nascondono molti ladri vestiti da galantuomini. Alla fine della commedia Liconide costringe il servo a restituire la pentola ad Euclione. È esilarante il dialogo in cui il giovane si riferisce alla figlia dell'avaro, non nominandola, come bene prezioso mentre Euclione pensa che il giovane stia parlando della pentola (in realtà nel momento dell'incontro il giovane ancora non sapeva nulla dell'esistenza di quest'ultima). Alla fine, tutto termina nel migliore dei modi: Euclione avrà la sua pentola e concede la mano della figlia a Liconide. Secondo la ricostruzione ipotizzata nel ‘500 da un letterato umanista l’avaro addirittura regalerebbe agli sposi la pentola come dono di nozze: personalmente, visto il carattere del personaggio, nutro parecchi dubbi su questa conclusione.

La figura della donna nelle commedie di Plauto

Nelle commedie di Plauto è evidente una forte misoginia. Nell'Aulularia le mogli sono viste come un fastidio quando vengono sposate con la dote perché questo dà loro il diritto di pretendere dal marito tutto ciò che desiderano (sarti, porpora, abiti, gioielli, acconciature, valletti, carrozze, ecc.). Le donne, a detta di Megadoro, non hanno il dono del silenzio. Palestrione, nell’atto II del Miles gloriosus, mette in risalto la loro virtù menzognera, la perfidia, la testardaggine, la malizia: il sesso femminile é nato per ingannare e raggirare l’uomo, come nella scena in cui Filocomasio (la donna trattenuta in casa dal soldato come concubina) prende congedo dal miles fingendosi disperata per essere costretta ad abbandonare un uomo di cotanto valore (in realtà è un pavido fanfarone che si spaccia per incredibile seduttore e invincibile conquistatore di popoli). Nell'atto I di Mostellaria la serva astuta Scafa incoraggia la giovane Filemazio a trarre profitto dalla sua bellezza e la invita a non darsi ad un solo uomo; ella prende in giro le donne di una certa età che, per nascondere la vecchiaia, si spalmano unguenti ma alla fine riescono solo a puzzare. Ed è sempre nella stessa commedia che Filolachete, il giovane perdigiorno protagonista della vicenda, si rivolge agli spettatori maschi dicendo che sono stati comprati dalle mogli grazie alle doti versate.

Galli e Romani nell’opera lirica: la Norma di G.Bellini

Melodramma in due atti di G. Bellini. Libretto di F.Romani. Ispirato all'omonima tragedia di Louis Alexandre Soumet (1831). 

La Norma è stata rappresentata per la prima volta al Teatro della Scala a Milano il 26 dicembre 1831. Tra le interpretazioni successive del personaggio principale, per l'appunto Norma, una sacerdotessa druidica, ricordiamo quella memorabile della Callas avvenuta nel 1955, sempre al Teatro della Scala, in cui emerge la profonda sofferenza di una donna combattuta tra il senso del dovere e l'amore che prova per l'uomo amato e per i figli avuti da lui. La vicenda è ambientata all'epoca dell'invasione romana della Gallia.

Atto I

Norma, sacerdotessa dei druidi, ama segretamente il proconsole romano Pollione dal quale ha avuto due figli. La donna coltiva il sogno di pace e continua a rimandare la ribellione del suo popolo, riunitosi nel bosco sacro, contro gli invasori. In realtà Pollione non ama più Norma ma, all'insaputa di quest'ultima, coltiva segretamente una nuova passione per la giovane sacerdotessa Adalgisa. Norma, nell'aria “Casta diva”, invoca la luna affinché faccia trionfare la pace. Anche Adalgisa è combattuta tra il desiderio di Pollione e i voti fatti alla sua divinità. Quando Pollione minaccia di tornarsene a Roma e la obbliga a seguirlo, lei non può far altro che accettare e gli dà appuntamento per l’indomani per fuggire insieme. Adalgisa confida a Norma di amare un uomo (non nomina Pollione) e di non voler più continuare a onorare i voti fatti. Norma avverte che la situazione vissuta dalla fanciulla è molto affine alla sua e, presa dalla compassione, la scioglie dai voti ma, quando viene a sapere la verità, grida vendetta.

Atto II

Norma inizialmente vuole uccidere i suoi figli (ricordate la figura di Medea nella lezione antica Grecia Le donne Il teatro?), ma non ne ha il coraggio e vuole affidarli ad Adalgisa affinché vengano portati in salvo sotto la custodia di Pollione mentre lei vuole suicidarsi. La giovane sacerdotessa cerca di dissuaderla e promette di intercedere presso il console sebbene abbia rinunciato a lui. I Galli vengono a sapere che Pollione è in procinto di rientrare in patria a Roma e che verrà sostituito da un condottiero ancor più terribile. Norma viene a conoscenza del fatto che Pollione, saputo che Adalgisa vuole conservare i suoi voti e rinunciare a lui, medita di rapirla. Ordina allora la ribellione e fa prigioniero il proconsole, catturato nel sacro recinto delle vergini. La sacerdotessa allontana tutti col pretesto di interrogarlo sull'identità della fanciulla complice che lui aveva cercato di violare: in realtà vuole fargli giurare di lasciare in pace Adalgisa in cambio del suo perdono; solo così gli risparmierà la vita.  Nella discussione Norma arriva a minacciare di uccidere Adalgisa per aver mancato i  voti e per vendicarsi dell'ex amante ma, alla fine, decide di offrire sé stessa in sacrificio dopo essersi auto accusata di tradimento e ordina di preparare il rogo. Pollione, commosso da tanto coraggio ed eroismo, si infiamma nuovamente d'amore per lei e la segue sul rogo. Prima di morire la sacerdotessa affida i figli avuti dal proconsole al padre Oroveso, il capo dei druidi che, all'inizio si mostra riluttante, ma poi accetta.

L'opera segue gli accenti del romanticismo per quanto riguarda la trama, incentrata su storie d'amore ma anche per l'ambientazione nella Gallia druidica, scenario di culti misterici in cui sono adorate le personificazioni della natura. Al contrario dell'opera di Soumet (maggiormente ispirata a Medea e a Lady Macbeth), qui Norma non uccide i suoi figli (“teneri, teneri figli”), ma vive un profondo conflitto interiore: ella è legata al suo popolo e ai voti presi ma, al contempo, è profondamente innamorata di Pollione; l’unica soluzione catartica è la morte. Nel dramma non esiste un personaggio totalmente negativo: Pollione é solo un uomo debole che assurge ad eroe solo quando segue la fine di Norma. L’opera, in verità, cela intenti patriottici: la ribellione dei sottomessi Galli contro i Romani allude al messaggio di libertà del Risorgimento (un esempio è il coro “Guerra guerra”). Il passato viene dunque vissuto in chiave romantica e contemporanea.

 

Bibliografia

  • S.Settis T.Montanari Arte. Una storia naturale e civile Dalla Preistoria alla Tarda Antichità volume 1 Edizioni Mondadori Education Einaudi Scuola, 2019 

    P.Adorno L'arte italiana volume 1 Dall'arte cretese-micenea all'arte gotica Casa Editrice D'Anna, 1986

    S.Prossomariti Le grandi donne di Roma antica Edizione Amazon, 2021

    F.Cenerini La donna romanaIl Mulino,2022

    E.Cantarella E.Miraglia Le protagoniste Feltrinelli, 2021

    S.Vitali Da Tanaquil in poi Edizioni Albatros, 2016

    A.Batta Opera Autori Opere Interpreti Edizioni Koenemann, 2000

    Plauto Aulularia, Miles gloroisus, Mostellaria Garzanti, 2017

    V.Pavani O.Sori V.Viola Plauto e le sue storie Collana Narrativa Scuola Edizioni Loescher, 2001

    C. Molinari Storia del teatro Edizioni Laterza, 2006

     

Letture consigliate

  • A.Carandini Angoli di Roma Guida inconsueta alla città antica  Edizioni Laterza, 2016

    R.Quarta Roma segreta I luoghi dell'esoterismo nella città eterna Edizioni Mediterranee, 2014

     

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