Nella cultura omerica si parla di donne nelle vesti di spose, regine e padrone di casa. I vari pretendenti offrivano al padre della futura sposa gli hedna, ovvero doni nuziali di valore tanto maggiore quanto più era elevato il prestigio della famiglia con cui ci si poteva imparentare (con lo stesso termine si indicavano anche i beni assegnati al promesso sposo). Se poi l'onore di quest’ultimo era conosciuto universalmente, la famiglia poteva concedere la mano della fanciulla anche senza ricevere gli hedna: è il caso di Agamennone che nell'Iliade, per convincere Achille a tornare a combattere, gli offre ricchi doni e la mano di una delle sue tre figlie. Sempre per rimanere in argomento, occorre specificare che gli eroi protagonisti del celebre poema avevano solo una sposa, fatta eccezione per Priamo (Ecuba é la più importante, tuttavia i suoi consigli non vengono ascoltati dal marito). C'é però un caso particolare, quello di Elena la quale, pur rimanendo la moglie di Menelao re di Sparta, a Troia viene trattata e considerata come sposa legittima di Paride. Nell’Odissea compaiono donne più emancipate delle loro contemporanee: Arete, regina dei Feaci e nipote del re, ad esempio, partecipa al banchetto in onore di Ulisse (comportamento assolutamente ritenuto inusuale all’epoca) ed é Elena in persona ad accogliere Telemaco quando arriva a Sparta per chiedere notizie del padre. Le donne regine dei poemi omerici tessono, filano stoffe, dirigono il lavoro delle ancelle, si curano del benessere degli ospiti. Simbolo di questo angelo del focolare è Penelope (fig.01), la quale si occupava anche di gestire le proprietà di Itaca in assenza del marito.
C'erano però altre categorie di donne che vivevano all'interno dei palazzi: si tratta delle ancelle (fig.02), descritte, sempre nei poemi omerici, nell’atto di portare la conocchia, trasportare l'acqua, dedicarsi all'accoglienza dell'ospite.
Un'altra figura importante era la dispensiera, custode delle provviste, responsabile della cucina e del servizio a tavola: Euriclea, la nutrice di Ulisse, ne è un esempio; Omero, tra l’altro, ci racconta che era lei ad aver insegnato alle giovani ancelle a svolgere i compiti della servitù. Infine, c'erano le prigioniere, di origine regale o appartenenti a famiglie di sangue nobile. Esse erano considerate alla stregua di un bottino di guerra, motivo per cui erano condannate a soddisfare gli appetiti sessuali del loro padrone e a subire umiliazioni. Queste sono le principali categorie di donne protagoniste dei poemi omerici. Le regine erano onorate e rispettate, ma dovevano rimanere al loro posto: un esempio ce lo fornisce Telemaco nell’Odissea, il quale ricorda alla madre Penelope che, in assenza di Ulisse, era lui a impartire gli ordini in casa.
Anche in epoca classica le donne continuano ad essere considerate esseri inferiori: erano escluse dalla partecipazione alla vita politica e potevano prendere parte solo ad alcune manifestazioni religiose. Nella prima parte della sua vita la donna ha come kyrios (tutore) il padre o il marito. Se quest'ultimo muore prima di lei gli subentra il figlio o il parente maschio più prossimo. Per rendere legittimo il matrimonio era necessaria la coabitazione. Non ci si sposava per amore, ma per siglare alleanze famigliari. Molto importante era la dote che consisteva in monete, oggetti preziosi, beni immobili. All'epoca si poteva divorziare: la decisione era quasi sempre del marito che restituiva la moglie e la dote al suocero, il quale si incaricava di rimaritare la figlia. Nel caso in cui il marito moriva prima della moglie, se quest'ultima era ancora in età di procreare, poteva sposarsi di nuovo. Se la donna rimasta vedova avesse avuto dei figli, sarebbe potuta rimanere nella casa del marito mentre questi ultimi ereditavano la dote. Anche le donne potevano scegliere di annullare il matrimonio, come nel caso di infedeltà da parte del marito. La funzione della moglie legittima era quella di procreare e prendersi cura della casa. C'erano poi le concubine (pallakai): introdotte clandestinamente dai mariti, non legate da atti giuridici ai loro compagni, esse erano figlie di uomini liberi ma poveri che le avevano cedute ai vicini più ricchi al fine di ottenere favori, oppure si trattava di schiave. I figli illegittimi che si avevano dalle concubine, alla morte del marito, avevano diritto non ad una quota dell'eredità, bensì a proprietà fondiarie o era riservata loro una schiava. In generale, se un marito sorprendeva la moglie con l’amante in flagrante adulterio, aveva il diritto di mettere a morte quest'ultimo senza sottoporlo ad alcun processo (la maggior parte delle volte però si raggiungeva un accordo alla presenza di testimoni). La donna adultera era ripudiata e non poteva partecipare più ad alcuna cerimonia religiosa. Le ateniesi benestanti, in realtà, conducevano una vita meno libera delle popolane perché erano costrette a vivere chiuse in casa (solo l'uomo poteva occuparsi delle compere) circondate dalle ancelle, uscivano solo per partecipare ad alcuni riti religiosi. La donna del popolo, invece, era costretta ad uscire per fare acquisti al mercato e, dunque, era più libera. Le straniere pagavano allo stato una tassa speciale di sei dracme all'anno (mentre gli uomini versavano 12 dracme): si trattava per lo più di mogli che avevano seguito i consorti trasferiti in città per affari o per sfuggire agli avversari politici della loro città d'origine; esse conducevano vite simili alle mogli dei cittadini. Le donne meteche (straniere) da sole in città, per sopravvivere erano costrette a prostituirsi diventando così pornai (prostitute) che esercitavano il loro mestiere nelle locande di Atene o nel porto del Pireo. Le prostitute sacre si vendevano ai passanti e devolvevano i guadagni al tempio di appartenenza. Infine, c'erano le etere (fig.03), le uniche veramente libere: partecipavano ai banchetti insieme agli uomini, erano molto colte e potevano divenire anche molto potenti.
Tra queste cortigiane vissute tra la fine dell'epoca classica e gli inizi di quella ellenistica, ricordiamo la famosa Frine che aveva posato come modella per lo scultore Prassitele per la Venere di Cnido (vedi lezione Antica Grecia L’arte), portata in tribunale con l'accusa di aver introdotto ad Atene culti religiosi stranieri, assai sospetti (fig.04).
Le cortigiane saranno protagoniste del teatro comico alla fine del quarto secolo a.C.: ciò è indice ormai della decadenza morale di Atene e del declino del valore della famiglia all'interno della società. Queste donne, abili ed indipendenti, si relazionavano con gli uomini in un rapporto tra pari, maneggiavano denaro e acquisivano la libertà e l'indipendenza con la vendita del proprio corpo. Le schiave affiancavano la padrona nella cura della casa (tessevano, filavano, preparavano i pasti, eccetera). Alcune venivano sfruttate anche come operaie al fine di produrre beni da vendere al mercato. La maggior parte delle prostitute erano schiave, così come le danzatrici e le suonatrici di flauto. All'epoca era legittimo acquistare schiave per poi avviarle alla prostituzione: si tratta di una pratica assai diffusa soprattutto nel porto del Pireo.
Per quanto riguarda le donne e lo sport ricordiamo che ad Olimpia, ogni quattro anni, si tenevano i giochi erei (fig.05),riservati alle donne: si trattava di gare di corsa in cui si sfidavano prima le ragazze, poi le donne e in seguito le seniores. Esse gareggiavano con i capelli sciolti, indossavano una veste corta con le spalle nude; le vincitrici erano incoronate con foglie d'olivo e in loro onore si ergevano statue.
Quando all'interno di una famiglia nasceva una donna, ci si poneva il problema di fornirle una dote al fine di assicurarle un buon matrimonio. In ogni caso essere femmina costituiva un problema perché nel momento in cui la si faceva sposare, non sarebbe comunque stata in grado di restituire alla famiglia d'origine quanto si era speso per lei; se poi non si fosse sposata, essa avrebbe continuato a pesare sul bilancio familiare. Questo è il motivo per cui spesso, appena nate, le neonate venivano “esposte”, ovvero abbandonate in una pentola di coccio per strada. Di regola le femmine venivano educate solo al lavoro domestico e si sposavano a 14-15 anni con uomini di 30. Esse trascorrevano l’infanzia giocando a palla, con la trottola, le altalene e le bambole (che al momento del matrimonio consacravano ad Artemide). La cerimonia del matrimonio durava tre giorni: durante il primo il padre offriva doni agli dèi e i futuri sposi facevano il bagno in una fonte o in un fiume sacro. Il secondo giorno si organizzava un banchetto di nozze a casa del padre della sposa, al termine del quale quest’ultima raggiungeva la casa del marito su un carro (fig.06). Il terzo giorno si ricevevano i doni nuziali. Nel caso in cui la moglie non generava figli, il padre della sposa poteva decidere di interrompere il matrimonio.
Per quanto riguarda le donne a Sparta sappiamo che erano educate alla corsa e allo sport ed avevano la pelle abbronzata perché vivevano all'aria aperta: solo in questa maniera il loro fisico sarebbe stato in grado di generare uomini robusti e vigorosi, futuri abili soldati. Gareggiavano nude perché erano delle atlete: questa consuetudine, dunque, non era considerata scandalosa. Plutarco , storico romano, ci racconta che esistevano curiosi riti di iniziazione per le donne spartane che dovevano sposarsi: l'uomo fingeva di rapire la giovane a cui venivano rasati i capelli dopo averle fatto indossare abiti e calzature maschili. La fanciulla doveva attendere stesa su un pagliericcio e al buio il suo futuro sposo, il quale le scioglieva la cintura e, dopo averla trasportata in braccio sul letto e aver trascorso del tempo in sua compagnia, ritornava a dormire insieme agli altri suoi commilitoni. Le fanciulle spartane erano sotto la protezione di Atena , la dea guerriera vergine.
Tra i filosofi greci è stato Socrate (vedi sitografia) (fig.07) a considerare la donna non alla pari, ma quanto meno non inferiore all'uomo. Queste sue idee completamente innovative contribuirono all'accusa di sovversione da cui fu colpito e per la quale fu condannato a morte. Platone (vedi sitografia) (fig.08), suo discepolo, nella Repubblica tratteggia una città ideale in cui alle donne si sarebbe potuto attribuire il ruolo di “custodi” incaricati della sicurezza. In questa società utopica tutto viene messo in comune affinché non ci siano più lotte causate dalle disuguaglianze. Dalla comunanza dei beni Platone passa a parlare della condivisione delle donne, le quali saranno educate, al pari dei maschi, alla ginnastica e alla musica e godranno delle stesse opportunità degli uomini. Per quanto riguarda l'attività bellica esse non prenderanno parte alle spedizioni, ma dovranno essere in grado di difendere le città. Nell’opera Leggi, sempre di Platone, si ipotizzano addirittura incarichi di ispezione da far svolgere al sesso femminile e si ventila la possibilità che le donne possano partecipare ai pasti in comune. Secondo la visione ideale del filosofo gli sposi devono avere la possibilità di conoscersi prima del matrimonio per poi essere loro stessi a scegliersi. Non v’é dubbio che Platone mostra una visione assai più aperta rispetto ai suoi contemporanei, nonostante tutto però egli continua a considerare la donna inferiore all'uomo perché non in grado di adempiere alle funzioni maschili. Nelle Leggi, tuttavia, il suo ruolo ritorna ad essere quello di padrona di casa mentre nella Repubblica si era parlato di dispensarla dalle attività domestiche. Infine, con Aristotele (vedi sitografia) (fig.09) l’idea dell’emancipazione femminile compie passi indietro: la donna è padrona dell'oikos e qui deve rimanere. Nell’opera Politica, il filosofo fa risalire la decadenza di Sparta proprio all’ eccessiva ricchezza e influenza di cui godevano le donne lacedemoni. Secondo la sua ottica, infatti, la donna deve obbedire al marito (il quale, nei suoi confronti, deve esercitare “l’autorità dell’uomo di Stato”) e nel processo di riproduzione essa svolge un ruolo meramente passivo (concetto che torna spesso nel teatro tragico greco).
All'interno dell'oikos (casa), la padrona onorava quotidianamente il culto della dea del focolare Estia (fig.10). Le donne partecipavano a molti riti religiosi; quelle sposate legittimamente ai cittadini ateniesi frequentavano le feste dedicate a Demetra Tesmofora (fig.11). Durante queste celebrazioni venivano elette presidentesse della festa le donne appartenenti alle famiglie più in vista della città. Le fanciulle prendevano parte alle processioni delle Panatenee: le arrefore (quattro vergini) tessevano il peplo per Atena indossando un costume bianco, le aletridi macinavano il grano per le focacce consacrate alla dea, le canefore durante la processione portavano le ceste colme delle offerte sacre. Sacerdotesse del dio Dioniso erano le menadi o baccanti (vedi lezione Antica Grecia Alimentazione e sport), cui Euripide dedicherà l’ultima delle sue tragedie. Ricordiamo, infine, le feste notturne consacrate ad Adone, le Adonie, durante le quali la presenza delle cortigiane dava adito a comportamenti licenziosi assai sfrenati.
.Aspasia
La donna più celebre della Grecia antica é senza dubbio Aspasia, concubina di Pericle, originaria di Mileto, nell'Asia minore (fig.12). Visse con il celebre statista dopo il suo divorzio dalla prima moglie. Si narra che ogni giorno Pericle, quando usciva di casa e quando rientrava dall'agorà, la salutava con affetto baciandola, contravvenendo così alle prescrizioni della civiltà greca riguardo i rapporti matrimoniali (all’epoca era bandito tutto ciò che andava oltre la semplice affettuosità). Pensate che Pericle, tanto l’amava, che fece iscrivere il figlio natogli da questa unione nei registri civici, anche se legalmente non poteva essere riconosciuto come cittadino ateniese essendo Aspasia originaria di Mileto e, dunque, una straniera. Così facendo il celebre statista è andato contro le leggi che lui stesso aveva promulgato! (vedi lezione Antica Grecia Un po’ di storia). Alla morte del politico, Aspasia si legò ad un certo Liside, assai rozzo ed ignorante, e lo aiutò a diventare il primo uomo della città. Questa celebre donna sosteneva la parità tra uomo e donna nel matrimonio, era molto abile nell'arte della retorica ed era ammirata da Socrate e dai suoi discepoli: si dice addirittura che il discorso funebre da lui pronunciato in onore dei morti caduti durante la guerra corinzia lo avrebbe scritto la stessa Aspasia. È chiaro come una donna del genere (come succederà per Ipazia) all’epoca sia stata considerata pericolosamente controcorrente, cosa che le procurò l’accusa di empietà.
Teano
Famosa filosofa e matematica, visse nel VI secolo a.C. a Crotone (fig.13). Seguace della scuola di Pitagora, non è ancora chiaro il legame che la univa al noto studioso. Operò ricerche in campo matematico, filosofico, medico. Fu la più famosa cosmologa della scuola pitagorica, studiava i pianeti per ricostruirne le orbite e sosteneva che il cosmo era fatto da dieci strati sferici ruotanti attorno ad un fuoco centrale. Sempre secondo le teorie della scuola pitagorica il cosmo era dominato da perfezione ed armonia: Pitagora, infatti, intuì l'esistenza dei rapporti numerici fra le frequenze musicali. Si dice che Teano fosse un'ottima guaritrice e che subentrò a Pitagora nella guida della scuola dopo la sua morte.
Agnodice
Nel 300 a.C. ad Atene operò Agnodice, donna coraggiosa che, travestita da uomo, aveva studiato medicina ad Alessandria d'Egitto e praticato la professione (fig.14). Quando si venne a scoprire la sua vera identità sessuale rischiò di essere condannata a morte: si salvò solo grazie all'intervento delle donne che avevano beneficiato del suo operato.
Ipazia d’Alessandria
Ipazia è vissuta tra il 370 e 415 d.C. È l’erede della cultura scientifica dell’antica Grecia (fig.15). È la prima scienziata di cui possediamo informazioni più precise. Nasce ad Alessandria d'Egitto e compie studi legati alla scuola neoplatonica, di cui assunse a 31 anni la direzione. Viaggia ad Atene e in Italia. Il padre Teone era un matematico e dirigeva il Museion (da Muse), il polo scientifico culturale più importante dell'antichità. Donna coltissima, saggia e affascinante, decise di non sposarsi e di dedicare tutta la sua vita alla scienza. Scrisse trattati di matematica, stilò tavole astronomiche, si occupò di problemi di aritmetica, geometria (sezioni del cono) meccanica e tecnologia. La storia le attribuisce l'invenzione dell’aerometro (per determinare il peso specifico di un liquido) e dell'astrolabio per calcolare la posizione del sole, dei pianeti e delle stelle. Divenne famosa, nonostante fosse una donna, al punto tale che, per ascoltare le sue lezioni, moltissimi affrontavano lunghi viaggi. Siccome sosteneva la netta distinzione tra religione e scienza e conduceva una vita estremamente libera ed indipendente (cosa impensabile per una donna dell'epoca), fu perseguitata dai cristiani e le fu teso un agguato durante il quale fu fatta a pezzi con tegole taglienti. I suoi resti furono bruciati. Sebbene i suoi scritti originali siano andati perduti, sono entrati a far parte di raccolte di altri autori e il suo operato è spesso citato dalle fonti a lei contemporanee. Secondo alcuni studiosi la storia del martirio di Santa Caterina d'Alessandria, la cui fine è molto simile a quella di Ipazia, sarebbe frutto di un'invenzione della Chiesa per espiare il senso di colpa per l'assassinio commesso della celebre scienziata.
Callipatera
I giochi olimpici erano riservati agli uomini e alle donne era vietato assistervi. La storia però ci tramanda un'eccezione. Callipatera (V-IV secolo a.C.) era figlia del famoso pugile Diagòra di Rodi (fig.16). Suo marito, noto atleta dell’epoca, purtroppo muore. Il figlio seguirà le orme del padre, ma quando deve gareggiare non può essere accompagnato dalla madre perché le regole lo vietavano. Callipatera allora si traveste da uomo. Quando il figlio vince, presa dall'entusiasmo, la donna scavalca il recinto cosicché la veste si impiglia nello steccato scoprendone le nudità. Il trucco ormai era svelato. All'inizio i giudici volevano condannarla a morte, ma la donna, molto astutamente, sottolineò il fatto che, evidentemente, se tutti gli uomini della sua famiglia erano diventati campioni sportivi era perché godevano della grazia divina e, quindi, di conseguenza, anche lei doveva essere considerata una favorita degli dèi. Non fu, dunque, punita, ma da allora si stabilì che gli allenatori dovessero entrare nudi nel recinto delle gare, così come facevano gli atleti, così da evitare simili spiacevoli situazioni.
Le opere letterarie dell’Antica Grecia sono fortemente misogine. Ad esempio ne Le opere e i giorni, Esiodo narra della creazione di Pandora (fig.17), la prima donna fonte di sventura per l’umanità. Creata da Efesto per volere di Zeus (il quale voleva punire gli uomini perché avevano ricevuto da Prometeo il dono del fuoco), plasmata con l’acqua e con la terra, ella riceve da Afrodite la bellezza, dalla dea Atena il dono di sedurre gli uomini mentre Hermes le rende il cuore menzognero e le conferisce la capacità di persuadere con discorsi ingannatori. Pandora per nessuna ragione al mondo deve aprire un vaso affidatole da Zeus, ma è vinta dalla curiosità (non per niente si dice che la curiosità è donna!): in esso sono contenuti tutti i mali del mondo e quando lo scoperchia ne escono malattie, carestie, vecchiaia ecc.; secondo il mito vi rimase solo la speranza. Da quel momento sono iniziati i travagli per l'umanità… Come è facile comprendere, il mito spiega l'origine della misoginia molto diffusa nella cultura greca.
Un esempio illustre di questo atteggiamento è il frammento lirico di Semonide di Amorgo (VII-VI sec.a.C) dal titolo il Giambo delle donne (vedi sitografia) in cui la donna, a seconda delle sue caratteristiche, viene paragonata a vari animali: la donna scrofa è sporca e la sua casa è una lordura, la donna volpe è furba, la donna cagna latra in continuazione, la donna asino subisce le botte, lavora alacremente ed è pronta ad accoppiarsi con chiunque, la donna gatto è ingorda e ninfomane, la donna cavalla schiva la fatica e non fa altro che imbellettarsi, la donna scimmia è di una bruttezza esasperata e pensa solo a far del male. Dall’elenco si salva solo la donna ape, laboriosa, fonte di prosperità e ottima genitrice. In definitiva l’autore considera la donna come il più gran male del mondo e fonte di tutte le disgrazie (basti pensare alla figura di Elena!).
Le Amazzoni (fig.18)
Le Amazzoni erano donne guerriere che vivevano in comunità. Quando si accoppiavano con gli stranieri generavano la prole: nel caso in cui nascevano figli maschi, questi ultimi erano accecati o uccisi. Per rendere le femmine delle abili guerriere veniva loro tagliato un seno così da poter usare con più agio arco e freccia (a- mazos = senza seno). I Greci consideravano questo tipo di comunità contro natura (lo si evince dai fregi del Partenone: vedi lezione Antica Grecia L’Arte).
Saffo
Celeberrimo personaggio della letteratura, Saffo (fig.19) nasce nell'isola di Lesbo nel 612 a.C. Apparteneva ad una famiglia aristocratica. Dal suo matrimonio con un certo Cerchila nasce la figlia Cleis. Tra il 604 e il 595 si rifugia in Sicilia per motivi politici. Quando rientra a Mitilene fonda una comunità di giovani donne cui impartisce un'educazione raffinata e impostata principalmente sul canto e sulla danza e sull’apprendere le armi della seduzione e della grazia. L'obiettivo di questo tiaso (associazione religiosa) era dunque quello di formare la loro personalità. Qualcuno ritiene che tale comunità avesse lo scopo di celebrare Afrodite, di cui Saffo era forse sacerdotessa. La poesia di Saffo canta l'amore per le donne amate: Gongila, Attide, etc. Compose anche epitalami (canti nuziali) per le fanciulle del tiaso destinate al matrimonio. Nella sua poesia canta un amore puro, passionale, sullo sfondo del paesaggio e della natura. Narra una leggenda che Saffo fosse veramente brutta e che si sia gettata dalla rupe di Leucade a causa dell'amore non corrisposto per Faone. Della sua produzione letteraria non rimane quasi nulla: per lo più frammenti ordinati dai grammatici alessandrini in nove libri. Insieme ad Anacreonte e ad Alceo è stata uno dei massimi esponenti del genere melico (poesie destinate a essere declamate con l'accompagnamento della lira). Leopardi le dedicherà l’Ultimo canto di Saffo e Foscolo A Saffo. L'influenza che la poetessa greca ha avuto sull’opera di Leopardi, a mio modo di vedere, è visibile nel frammento 94 (vedi sitografia) in cui si parla del fatto che una delle fanciulle amate del gruppo del tiaso è costretta a partire contro voglia. Saffo allora le ricorda i bei momenti vissuti insieme quando intrecciavano corone di rose e viole per adornarsi il capo e ghirlande di fiori con cui cingersi il collo, scena presente all’inizio del sabato del villaggio di Leopardi nella descrizione della donzelletta che stava giungendo dalla campagna. Nel frammento 2 Feste nel tiaso, protagonista è il paesaggio che, insieme all’amore, è uno dei temi toccati dalla poetessa: boschi di mele, acque scroscianti, rose, prati fioriti primaverili fanno da sfondo agli altari di Afrodite, la dea che in coppe dorate versa nettare misto a gioia (vedi sitografia).
Altre poetesse
La letteratura ci ricorda anche altri nomi di poetesse greche, tra cui Mirtide di Antedone (maestra di Pindaro), Telesilla, la poetessa guerriera che guidò le donne di Argo nella difesa della città contro Sparta (i suoi concittadini eressero una statua in sua memoria ). Anche la poetessa Prassilla di Sicione (vicino Corinto) venne onorata con una statua bronzea.
Come si vestivano gli antichi greci? Il capo principale era il chitone, una tunica realizzata con due triangoli di stoffa cuciti sulle spalle e lungo i fianchi (fig. 20 a sinistra e a destra). Sopra il chitone si indossava l’himation, un mantello più pesante o più leggero, a seconda delle stagioni, che copriva anche la testa in segno di decoro (fig.21). Le donne portavano il peplo, un rettangolo di stoffa ripiegato in modo da cadere con un risvolto fino alla cintola (fig.20 al centro). I soldati, invece, indossavano la clamide, un mantello a forma di conchiglia (fig.22).
I vestiti femminili più pregiati erano decorati da ricami. Le donne del popolo non portavano acconciature mentre quelle benestanti avevano i capelli raccolti in chignon con una fascia a rete e amavano arricciarsi i capelli e adornarli con pettini d'avorio, di tartaruga, di osso (fig.23).
Le donne non si tagliavano mai i capelli se non in caso di lutto o se cadevano in schiavitù. I bambini, al contrario degli uomini, avevano i capelli lunghi. Le bambine portavano la coda. Le donne dabbene indossavano i veli quando partecipavano a cerimonie religiose mentre quelle non velate erano nubili o sessualmente disponibili. I veli potevano essere sottili, quasi trasparenti, o erano realizzati con il cotone importato dall'India. In occasione delle nozze, la sposa indossava una tunica bianca con una cintura alla vita, mentre in testa aveva un velo color giallo zafferano.
Il teatro nell'antica Grecia era collegato alla vita religiosa: tutte le rappresentazioni teatrali avvenivano nel santuario di Dioniso ed erano presiedute da un suo sacerdote. Gli spettacoli erano organizzati sotto forma di concorsi. I teatri, tutti all'aperto, erano ricavati sfruttando le pendici di una collina. Insieme ai giochi sportivi queste rappresentazioni costituivano un momento di coesione per gli abitanti delle polèis sempre in lotta fra loro perché le opere rappresentate facevano parte di un patrimonio culturale comune. Compito del teatro era recare svago e diletto ma al contempo, attraverso il meccanismo dell'identificazione dello spettatore con gli attori, avveniva la cosiddetta catarsi , ovvero la purificazione. Gli spettatori delle tragedie, assistendo allo spettacolo, si spaventavano, si commuovevano e prendevano a modello di comportamento gli eroi. In origine le rappresentazioni avvenivano nell'agorà; tuttavia, a seguito del crollo delle tribune ivi allestite durante uno spettacolo, esse furono trasferite ai piedi dell'Acropoli. Le gradinate (cavèa ), costruite sfruttando il declivio della collina, erano state realizzate in origine in legno e successivamente in muratura. Esse degradavano fino al piano dell'orchestra circolare riservata al coro e alle danze. Qui era collocato l'altare di Dioniso. C'erano poi due entrate per l'ingresso del coro e degli attori (pàrodoi) : l'arrivo da destra simboleggiava la provenienza di un personaggio dalla città, l'arrivo da sinistra corrispondeva ad una provenienza dalla campagna o, comunque, da spazi esterni alla città. La scena era collocata sullo sfondo con la funzione di fondale. In origine essa consisteva in una tenda rossa appesa ad una corda tesa tra due alberi o tra due grossi pali e dietro la quale gli attori si cambiavano e depositavano maschere e costumi. In seguito, è diventata una baracca costruita con assi di legno dipinte e rimovibili facilmente, in modo da simulare all'occorrenza un tempio, una reggia, una casa etc. (da skené deriva il termine scenografia ) (fig.24) . La struttura di questi antichi teatri permetteva una visibilità perfetta e un'ottima acustica da qualsiasi posizione. Il coro si muoveva nello spazio del proseikon (proscenio), il palcoscenico davanti la skené. Molto importante era la mechané (fig.25), un marchingegno usato per simulare il volo. Nelle prime file sedevano gratuitamente i magistrati, i sacerdoti, gli ambasciatori e i benefattori della città. I cittadini pagavano i biglietti ad un prezzo contenuto mentre lo stato si faceva carico dei più poveri. L'ingresso era consentito anche ai meteci (coloro i quali non possedevano la cittadinanza ateniese) e agli schiavi se accompagnati dai padroni.
Chi organizzava le rappresentazioni? L'arconte eponimo nominava i coreghi, cittadini ricchi che dovevano finanziare e allestire a proprie spese i cori tragici e comici, formati rispettivamente da 15 e 24 coreuti. Successivamente si bandiva il concorso: l'autore che voleva essere ammesso “chiedeva un coro” all' arconte. Gli attori principali (o protagonisti) erano scelti sempre dall'arconte ed erano attribuiti ai rispettivi poeti con un sorteggio. Il coro danzava e cantava al suono dell'oboe. Il ruolo delle donne era recitato dagli uomini. All'inizio i poeti facevano tutto: erano gli autori del testo, della musica, pensavano alla messinscena, alla coreografia, recitavano pure. Il primo giorno delle Grandi Dionisie (marzo- aprile) si svolgeva la processione in onore di Dioniso in cui venivano offerte al dio ceste d'oro colme di primizie e simboli fallici. Al genere comico era dedicata una giornata intera, poi era la volta della tragedia con tre poeti che mettevano in scena una tetralogia a testa (tre tragedie e un dramma satiresco): ogni tetralogia occupava un'intera giornata. Le donne assistevano sedute ai gradini più alti. I rhabdochi (portatori di verga) erano incaricati di assicurare l'ordine anche con le maniere forti. Gli spettacoli iniziavano all'alba in modo da poter assistere per tutta la giornata, fino al tramonto, a 4 o 5 rappresentazioni che avvenivano senza intervalli. Gli ateniesi si portavano da bere e da mangiare (qualche volta avveniva la distribuzione gratuita di focacce e vino). Il pubblico in totale assisteva a nove tragedie, tre drammi satireschi e 5 commedie. Ogni opera era annunziata dallo squillo di tromba dell'araldo. Si manifestava il consenso o il dissenso con applausi o fischi (alcuni poeti si compravano la claque). Alla fine della manifestazione dieci giudici sorteggiati, uno per ogni tribù, esprimevano il loro giudizio sulle opere rappresentate. Successivamente venivano distribuiti i premi che consistevano nella consegna di corone di edera (simbolo di Dioniso) al poeta, al protagonista e al corego. I coreghi vincitori spesso tributavano una statua al dio Dioniso. Il popolo aveva la facoltà di giudicare la gestione dell'arconte che aveva organizzato il concorso. Altre rappresentazioni teatrali erano organizzate nei mesi di gennaio -febbraio per la festa delle Lenee (da Lênai= donne invasate), sempre in onore di Dioniso mentre tra dicembre e gennaio avvenivano le Dionisie Rurali .
Maschere e costumi erano in cuoio, in stoffa, in legno (tutto il materiale è andato perduto; oggi ne possediamo copie in terracotta). Servivano a indentificare il ruolo e l'identità dei personaggi e consentivano agli attori, tutti maschi, di interpretare ruoli femminili e parti diverse. Le maschere tragiche (fig.26) avevano tratti espressivi esasperati, occhi spalancati, bocche enormi per incutere timore. I personaggi delle tragedie erano inoltre caratterizzati da acconciature di capelli molto rialzate allo scopo di rendere più maestose le figure e poterle identificare anche da lontano. Nelle bocche delle maschere erano collocati dei megafoni proprio allo scopo di modificare le voci e renderle più terribili.
Le maschere comiche (fig.27) deformavano le sembianze dei personaggi viventi oggetto di derisione. I costumi degli attori che interpretavano eroi e figli di divinità erano sontuosi. Le tuniche arrivavano fino ai piedi, le maniche erano lunghe e aderenti.
Come calzature si indossavano i coturni (fig.28) con la suola spropositatamente alta. Accanto agli attori potevano esserci comparse nel ruolo di prigionieri di guerra, servi ecc. Nei drammi satireschi i membri del coro indossavano calzamaglie caratterizzate da macchie, che simulavano un’irsuta villosità, con davanti un fallo enorme e dietro una coda di cavallo.
Come nasce il teatro greco? Tutto è iniziato con le Grandi Dionisie, le feste in onore di Dioniso che si tenevano nel mese di marzo. Il dio del vino, infatti, amava fare le sue scorribande andando in giro su un carro trainato da animali esotici, accompagnato da cortei di baccanti (vedi lezione Antica Grecia Alimentazione e sport) e di satiri (esseri metà uomini e metà capre) (fig.29). Tragedia deriva dal termine tragoi(= canto del capro): i primi cantori, infatti, fingevano di essere satiri e intonavano canti, battevano le mani, suonavano tamburelli e si travestivano indossando pantaloni di pelle di capra (fig.30).
Si creavano così delle vere e proprie compagnie che giravano di città in città, tributavano sacrifici sull'altare di Dioniso per intonare poi dei canti mentre la popolazione si radunava per assistere allo spettacolo. Col passare del tempo il coro diventò sempre più complesso: si divise in due parti che si scambiavano dialoghi ispirati alla vita del dio. Poi si aggiunse il corifeo o capo del coro (formato all’incirca da 15 persone) che impersonava Dioniso e interveniva in prima persona nel racconto. A poco a poco al repertorio si aggiunsero le storie di altri eroi. Nel 534 a.C. durante le feste dionisiache, il poeta Tespi fui il primo ad introdurre un attore in dialogo col coro; i versi recitati raccontavano un tema mitico: fu allora che nacque la tragedia! Successivamente il coro diventa testimone della vicenda mentre gli attori ne sono i protagonisti. Anche gli argomenti subirono un'evoluzione: dall'esaltazione degli dèi si passa ad affrontare problemi sociali e politici. Da una delle due porte laterali entrava un personaggio che, ricorrendo al monologo, raccontava una data situazione, spiegava ciò che aveva intenzione di fare e, a tal fine, si consigliava col coro. Quest'ultimo gli forniva suggerimenti per voce del corifeo, ma alla fine gli si lasciava completa libertà di azione. L'attore allora si ritirava, ne entrava un altro, ecc. Sul proscenio, dunque, figurava solo un personaggio alla volta. L’azione vera e propria avveniva al di fuori della rappresentazione ed era narrata al pubblico di volta in volta. Ad agevolare l'identificazione da parte degli spettatori con l’attore che arrivava sulla scena c'erano delle battute che lo precedevano; successivamente ne veniva specificato il nome e la provenienza. La parola era essenziale per far immaginare al pubblico lo spazio, il tempo atmosferico, l'ora del giorno a cui faceva riferimento la scena. Tra i teatri greci ricordiamo quello di Delfi (fig.31) che poteva contenere fino a 5000 spettatori. Qui avvenivano i giochi pitici ogni otto e poi ogni quattro anni, gare soprattutto musicali (si dice che il primo ad esibirsi sia stato proprio il dio Apollo), spettacoli teatrali, concerti, festival di flautisti e citaristi.
Il teatro più integro è quello di Epidauro (fig.32), edificato da Policleto di Argo nel 360 a.C.: pensate, poteva contenere ben 14.000 spettatori! Qui troviamo tutte le caratteristiche architettoniche tipiche del teatro greco: la gradinata più o meno semicircolare (cavèa), suddivisa in settori radiali grazie a rampe di scale a metà altezza e percorsa da un corridoio orizzontale. Tutto converge verso la parte inferiore ovvero l'orchestra, lo spazio semicircolare in cui si muove il coro. Sono visibili, sulla fila a ridosso dell'orchestra, i posti destinati agli ospiti più importanti: li possiamo riconoscere dagli schienali in pietra. Sul fondo è presente la skené preceduta dal proskenion, il vero e proprio palco in pietra ove recitavano gli attori. Ai lati ci sono i pàrodoi dai quali entravano il pubblico e il coro.
Il termine tragedia nasce da tragodìa, canto del capro, ovvero dall'imitazione dei cori intonati dai satiri. C'è però un'ulteriore spiegazione: tragedia significherebbe “canto per il sacrificio del capro”. Ciò farebbe riferimento ad un racconto mitico: ogni primavera, uomini col volto coperto da maschere uccidevano un capro intonando melodie e suonando flauti. Essi volevano imitare coloro i quali avevano sacrificato il capro, l’animale che, secondo il mito, aveva mangiato alcune foglie della vite, la pianta che Icario aveva imparato a coltivare grazie a Dioniso. Col termine di tragedia si sarebbe indicata per l'appunto una narrazione teatrale con al centro assassinii e atti sacrificali. La tragedia si articola in più parti: il prologo, il pàrodo, l’episodio, l’esodo, il canto corale. Si definisce prologo tutta la parte dell'opera che precede l'ingresso del coro; si suddivide al massimo in tre scene e fornisce informazioni sui luoghi, i personaggi, etc. dell'azione in modo che il pubblico possa seguire meglio la vicenda. Non tutte le tragedie hanno il prologo. Il pàrodo è la prima esibizione del coro che, entrando, si disponeva nello spazio dell'orchestra: anche questa parte aveva una funzione esplicativa, alcune volte connessa al prologo. Gli episodi erano le parti del dramma in cui dialogavano gli attori. Variavano da tre a cinque; ognuno di essi poteva essere articolato in scene diverse a seconda dell'entrata e dell'uscita dei personaggi dalla scena. I discorsi esprimevano i punti di vista di questi ultimi, consigli, ordini, tentativi di dissuasione o persuasione, apologie, descrizione di eventi. Tra un episodio e l'altro, o all’interno di uno stesso, c'erano i canti del coro, il quale doveva rimanere nello spazio dell’orchestra fino alla fine. Il coro poteva suddividersi in due gruppi, cantare, danzare e alternare la sua voce a quella degli attori. Il monologo, ovvero il discorso articolato dal personaggio senza che ci siano altre persone presenti nella scena, avviene solo nel prologo, l’unico momento della rappresentazione in cui il coro non è entrato ancora nell'orchestra. Nel corso degli episodi potevano esserci monologhi in cui, ad esempio, il personaggio esprimeva il proprio dolore, prescindendo però dal contatto con altri. L'esodo era la parte finale della storia ove facevano da protagoniste la scoperta della verità e le conseguenze della sventura. L’esito della trama poteva prevedere anche il deus ex machina, ovvero l'intervento di una divinità ai fini dello scioglimento della vicenda. Alcune tragedie avevano un lieto fine: un esempio é l’ultimo dramma che compone L’Orestea di Eschilo dal titolo Le Eumenidi, in cui Oreste viene assolto dal reato di omicidio della madre Clitennestra per decisione del tribunale divino. Ciò che accomuna le tragedie nel teatro ateniese è la serietà dell'azione rappresentata. Il dramma avviene nell'arco di un giorno, anche il luogo dell'azione rimane lo stesso. Alla fine degli episodi c’erano i canti corali. Il coro rappresenta gli abitanti del luogo ove si svolge la vicenda, tuttavia ci sono delle eccezioni. Nelle Supplici di Eschilo, infatti, ambientato ad Argo, esso interpreta le figlie di Danao fuggite dall'Egitto. Il coro può qualche volta influenzare l'azione, ma nella maggior parte dei casi si mostra impotente di fronte all’accadere delle disgrazie e si limita a commentare, ad esternare i propri sentimenti, a manifestare il proprio dissenso (ricordiamo, a questo proposito, la tragedia Medea di Euripide, quando si rivela contrario al progetto di figlicidio perseguito dalla protagonista). In genere, dopo l’evento luttuoso, avviene il pianto rituale. Al fine di indurre negli spettatori pietà e compassione (catarsi) i protagonisti delle tragedie erano legati tra loro da rapporti di affetto, di amicizia o di parentela, rapporti che venivano messi alla prova da un susseguirsi di sventure e violenze: in questo modo chi assisteva allo spettacolo avrebbe provato emozioni più forti.
I tragediografi
Eschilo (fig.33)
Nato ad Eleusi nel 525 a.C., muore a Gela in Sicilia nel 455 a.C. Era di famiglia nobile e nel 490 a.C. partecipò come oplita alle battaglie di Maratona e di Salamina. Compose drammi sin dalla giovane età. Partecipò a gare di composizioni drammatiche a partire dal 499 a.C. (a soli 26 anni) e vinse per ben tredici volte. Fu invitato in Sicilia da Ierone, tiranno di Siracusa, per allestire una replica dei Persiani. Rientrato ad Atene, ritornerà in Sicilia per rimanervi fino alla morte causata, secondo la tradizione, da una tartaruga lasciata cadere sulla sua testa da un'aquila che volava in cielo. Sappiamo, inoltre, che fu accusato di aver violato il segreto dei misteri eleusini. Delle novanta tragedie da lui scritte ce ne sono giunte solo sette: Persiani, Agamennone, le Coefore, le Eumenidi (queste ultime tre fanno parte della trilogia dell’Orestea), le Supplici, Sette contro Tebe. Al centro delle sue opere c'è un profondo senso religioso e patriottico. Tra le sue innovazioni, rispetto ai canoni precedenti, ricordiamo l'aggiunta di un secondo attore (non più solo un attore e il coro), l’introduzione della trilogia e quella di maschere e costumi al fine di impressionare gli spettatori.
Sofocle (fig.34)
Nato nel 496 a.C. e morto nel 406 a.C., Sofocle era figlio di uno dei più ricchi artigiani di Colono (Attica) fabbricante di armi, visse quasi novant'anni e, dunque, ebbe modo di osservare i cambiamenti che hanno caratterizzato la storia della Grecia del quinto secolo, dalle guerre persiane e l'età di Pericle fino alla caduta di Atene. Riceve un'educazione molto raffinata soprattutto in campo musicale. Grazie alla sua bellezza e al suo talento di musico e danzatore guidò nel 480 a.C. il coro della festa che celebrava la vittoria greca a Salamina. Fu molto vicino a Pericle ed ebbe l'incarico di amministrare il denaro versato ad Atene dalle polèis che facevano parte della Lega di Delo. Ebbe una moglie che sostituì con l'amante Teoride. Ha goduto dell'amore di famose etere anche in età avanzata. Sacerdote e seguace di Asclepio, fu molto amico di Erodoto (vedi sitografia). Anche la sua morte è avvolta dalla leggenda: si racconta che Sofocle morì perché gli andò di traverso un chicco di uva offertogli da un attore o a causa dell’emozione provata alla notizia di aver vinto un concorso drammatico. Sofocle concepisce l'esistenza come un percorso iniziatico, volto alla purificazione, che avviene sotto la guida degli dèi. Favorisce il culto di Asclepio, il dio della medicina venerato ad Epidauro, capace di guarire attraverso l'interpretazione dei sogni e una sorta di ipnosi. Molto importante per Sofocle è la pietas, ovvero la devozione agli dèi e la capacità di accettarne incondizionatamente la volontà. Nelle sue opere l’ego e la caparbietà sono le cause principali della sofferenza dei mortali. Lo spettatore al teatro veniva chiamato a rispecchiarsi nelle vicende dei protagonisti, a interiorizzare l'insegnamento della vicenda e a liberarsi delle proprie passioni. Gli dèi, nelle sue tragedie, favoriscono la giustizia e puniscono l’hybris, la tracotanza. I suoi principali insegnamenti sottolineano come il potere debba avvalersi della compassione (altrimenti rischia di degenerare in tirannide) e il fatto che la morte liberi dal dolore. Di lui ci rimangono solo sette drammi: l’Aiace, le Trachinie, l’Antigone, l’Elettra, l’Edipo re, Filottete, l’Edipo a Colono. Sofocle era autore, coreografo, regista e attore delle proprie opere. A lui si devono tre importanti innovazioni: aggiunse un terzo attore, portò il numero dei coreuti da 12 a 15, compose drammi indipendenti tra loro (non più dunque legati al vincolo della tetralogia). Con Sofocle non abbiamo più la tragedia corale, ma si lascia spazio all'individualità dei protagonisti.
Euripide (fig.35)
Figlio di un proprietario terriero e della nobile Clito, fu educato come un aristocratico anche allo sport, alla musica e alle lettere. Aveva a disposizione una biblioteca vastissima e amava molto l'arte. I suoi detrattori sostenevano come Euripide fosse figlio di una erbivendola e di un bottegaio ma, in realtà, queste notizie infondate circolavano perché il tragediografo mostrava simpatia per i ceti più poveri. La sua data di nascita varia dal 485- 484 a.C. al 480- 479 a.C. mentre la sua data di morte risale al 406 a.C. Muore a Pella, in Macedonia. Discepolo di Socrate e dei sofisti, si dice che fosse il custode del fuoco sacro di Apollo Zosterio. Nelle sue tragedie mostra compiacimento per la dialettica e la retorica. L’immagine di Euripide che ci è stata tramandata è quella di un uomo solitario, cupo, melanconico. Dalle sue opere traspare una certa diffidenza nei confronti della tradizione religiosa: fu più vicino ai culti misterici che non alla religione olimpica. Si dice che sia morto assalito da una muta di cani; di lui si sono salvate 17 tragedie: Alcesti, Medea, Ippolito, gli Eraclidi, le Supplici, Andromaca, Ecuba, Eracle impazzito, Ione, le Troadi, Elettra, Ifigenia in Tauride, Elena, le Fenicie, Oreste, Ifigenia in Aulide, le Baccanti. Euripide introduce il prologo e il deus ex machina, arricchisce l'elemento musicale. Inoltre, i protagonisti non sono più idealizzati e alcuni di essi si ispirano alle classi più umili.
All'inizio la commedia non era molto apprezzata: fu introdotta solo successivamente negli agoni dionisiaci. Il genere deriverebbe dai canti osceni che seguivano i cortei in onore di Dioniso in occasione delle feste Lenee e delle Grandi Dionisie (fig. 36).
I partecipanti avevano il capo inghirlandato di edere e viole e alcuni di essi, improvvisamente, correvano in avanti pronti a sbeffeggiare gli altri membri della processione. Il cittadino che portava in trionfo un fallo, simbolo di fecondità, aveva il viso sporco di fuligine. Questa consuetudine ci rivela come dietro il linguaggio osceno e le beffe, punti cardine della commedia, si celavano riti connessi all'avvicendarsi delle stagioni e al rinnovarsi della natura dopo la sterilità dell'inverno. C'è anche una seconda spiegazione legata alla nascita della commedia: secondo una teoria ellenistica, i contadini che avevano subito una torto da parte di un cittadino, si recavano durante la notte davanti la casa di quest'ultimo e denunciavano a gran voce l' offesa subita; successivamente essi erano invitati dalle autorità cittadine a ripetere in pieno giorno le loro denunce nel bel mezzo dell'agorà, se non addirittura nel teatro, con la faccia impiastricciata di feccia di vino e di fango, così da non venire riconosciuti. Questo espediente, utilizzato dalle autorità come deterrente contro le ingiustizie commesse nei confronti dei più umili, spiegherebbe la verve polemica del genere e l'origine delle maschere comiche. Una quarta spiegazione afferma che le battute e i lazzi osceni utilizzati nelle commedie greche si rifarebbero agli scherzi e ai gesti triviali con cui la vecchia Iambe era riuscita a far ridere Demetra, triste per la scomparsa della figlia rapita da Ade (vedi lezione Antica Grecia il mito e la religione). In realtà, forme di intrattenimento di tipo comico sono testimoniate in molteplici poleis greche come Megara o Sparta. Nella città lacedemone gli attori simulavano ladri di frutta e prendevano in giro la figura del medico straniero. La prima fase della commedia è conosciuta come antica e va dal IV alla fine del V secolo a.C. Essa si caratterizza per le polemiche contro la corruzione, la cattiva politica e i vizi della polis. Vengono messi alla berlina anche personaggi conosciuti, filosofi (come Socrate) e i poeti del tempo più arditi nelle innovazioni. Si fa riferimento, con una nota nostalgica, ad una mitica età dell'oro in cui c'era il paese della cuccagna (vedi Lezione Antica Grecia Alimentazione e Sport) e, dunque, ad un'età di ricchezza e abbondanza per tutti. Questo vagheggiamento, in realtà, voleva alludere ad un rimpianto dell'epoca passata in cui ad Atene erano rispettati gli antichi valori, quali la patria, la famiglia, l'onestà politica, la giustizia, il rispetto delle regole in contrasto con la situazione del V-IV secolo a.C. in cui vigeva una totale crisi economica, politica, sociale. Anche i miti sono un serbatoio a cui attingere, ovviamente rivisti in chiave farsesca. Tra gli autori più conosciuti della commedia antica ricordiamo: Chionide, Cratino, Ferecrate, Aristofane. Solo di Aristofane ci sono giunte a commedie allo stato integro, per il resto possediamo solo frammenti. La commedia si suddivide in: prologo, pàrodo, agone, parabasi, episodi scenici, intermezzi corali, esodo . Con il prologo lo spettatore viene a conoscenza dell'argomento trattato. Inoltre, con l'ausilio di battute e scherzi, si cercava di predisporre il pubblico all'ascolto. Il prologo poteva avvalersi del monologo recitato da un personaggio. La situazione iniziale era generalmente sfavorevole al protagonista, il quale cercherà, nel corso della vicenda, di volgere gli eventi a suo favore. Dopo il prologo abbiamo la pàrodo ovvero il momento in cui il coro entra in scena cantando ed interagendo con i protagonisti. Solitamente è uno dei personaggi a sollecitare l'arrivo del coro al fine di ottenere un aiuto per portare avanti la sua azione, L' agone consiste nella messinscena delle situazioni conflittuali tra due personaggi che si mettono a confronto dibattendo le loro posizioni. Verso metà del dramma arriva la paràbasi : il coro rimaneva da solo sulla scena per dialogare con gli spettatori; l'effetto che ne sortiva era quello di far venir meno l'illusione scenica. Poteva anche darsi che in questa fase del dramma si desse voce alle idee dell'autore il quale, attraverso il coro, decantava il valore delle sue opere lamentandosi, allo stesso tempo, delle calunnie subite e degli attacchi dei suoi rivali. Grazie a questo espediente egli arrivava anche a ribadire l'utilità dei consigli che aveva fornito ai suoi cittadini quando li aveva messi in guardia dai politici corrotti e disonesti (avvertimenti rimasti inascoltati). Dall' esodo in poi assistiamo alla parte finale della commedia, in cui allo scioglimento della trama contribuisce l'annuncio di un messaggero o comunque si arriva al lieto epilogo caratterizzato da un clima festoso accompagnato dalla celebrazione di banchetti o matrimoni. Il coro, nell'evoluzione della commedia greca, assume man mano un ruolo sempre più modesto. Molto importanti erano i giochi di parole, i doppi sensi. Le metafore si riferivano al mondo agricolo, allo sport, al cibo, al sesso e alle attività marinaresche. Si approfittava della vicenda per storpiare i nomi dei personaggi messi alla berlina, mettere in dubbio la nascita da genitori ateniesi di alcuni protagonisti della politica, deridere i difetti fisici ei vizi più comuni, denunciare presunte perversioni sessuali, atti di corruzione e di viltà. Nelle commedie troviamo anche parodie di famosi eroi quali Odisseo (di cui erano presi di mira la scaltrezza e l'abilità ad imbrogliare la gente), Eracle (preso in giro per i suoi esagerati appetiti sessuali e culinari), Dioniso (considerato come dio effemminato), Elena (caricatura delle femme fatale). Il linguaggio della commedia ricorre anche ad iperboli ed esagerazioni grottesche. La commedia invitava i cittadini spettatori a coalizzarsi simbolicamente contro coloro i quali erano ritenuti responsabili dei mali della polis. È chiaro che per poter fare tutto ciò doveva vigere la massima libertà di espressione; in realtà, a questo proposito ci furono dei divieti nel corso della storia, ma ebbero durata limitata.
La commedia di mezzo comprende tutto il IV secolo avanti Cristo fino all'esordio di Menandro (321 a.C.), il quale dà origine alla commedia nuova (ne parleremo nella lezione successiva dedicata all’ età alessandrina). Nella commedia di mezzo prevalgono le descrizioni di tipi umani e di categorie di mestieri quali calzolai, soldati, etere, lenoni, etc. Tra i temi affrontati ci sono gli intrecci d'amore; il linguaggio e i costumi si allontanano dall’oscenità: mentre nella commedia antica ventre e deretano degli attori apparivano gonfi perché imbottiti e tra le gambe c'era un fallo esagerato, ora maschere e vestiti sono più vicini alla quotidianità (fig.37).
Aristofane (fig.38)
Di Aristofane non conosciamo il luogo di nascita: alcuni sostengono che ebbe i natali a Rodi, altri in Egitto, altri ancora ad Egina. Sappiamo che venne accusato di aver usufruito del diritto di cittadinanza ateniese benché fosse straniero. Trascorse gran parte della sua vita a Egina ove il padre possedeva dei terreni. Le sue idee erano conservatrici. Si scagliò contro i politici corrotti che agivano in base solo agli interessi personali e aveva soprattutto nel mirino la giustizia ateniese. Aristofane parlava nelle sue commedie della necessità della pace dopo decenni di guerra fratricida che aveva causato il logoramento politico, sociale, economico delle polèis greche. Delle sue 37 commedie se ne sono salvate solo 11 tra cui: Donne al Parlamento, Vespe, Uccelli, Nuvole,Lisistrata, Rane, Pace . Pare che il re dei Persiani lo stimasse a tal punto da suggerire agli Spartani di trovare un consigliere del calibro di Aristofane. Nelle sue commedie viene descritta una città di Atene in piena decadenza, una polis in cui ormai, nel quarto secolo a.C., non esistevano più quei valori che l'avevano resa famosa un tempo. Gli eroi di Aristofane sono affetti da fissazioni o malattie strane: ad esempio Trigeo , il protagonista di Pace , medita tutto il giorno su come arrivare alla dimora di Zeus e porre fine alle guerre che stavano dilaniando la Grecia. Pisetero, l'eroe degli Uccelli, abbandona Atene per vivere insieme ai volatili in una utopica città sita tra le nuvole. Filocleone in Vespe non vuole rinunciare alla sua attività di giudice (alla quale si accedeva con sorteggio) perché questo ruolo lo faceva sentire onnipotente. I protagonisti aristofanei si ribellano alla crisi dei valori e al disagio del presente e vogliono sovvertire l'ordine sociale. La felicità può esserci solo se si ritorna al passato, ad una vita antica in cui trionfano le virtù civiche ei valori guerreschi. L'eroe non è mai innocente perché nel corso della commedia si rivela essere un imbroglione ribaldo e grossolano, destinato spesso a cader vittima delle sue stesse macchinazioni. Ci sono riferimenti al mondo animale: cito l'esempio in Vespe di Filocleone, il quale viene paragonato ad un topo per la sua capacità di fuggire attraverso buchi. Anche il cibo e le abbuffate, insieme al sogno del paese della cuccagna, diventano protagonisti delle commedie perché all'epoca della guerra del Peloponneso la devastazione delle campagne e dei raccolti causava penuria di cibo, ulteriore motivo dell'emergente necessità di porre fine ai conflitti . La metafora del cibo serve anche ad alludere alla corruzione del potere: è così che gli affari sporchi in politica vengono paragonati a procedimenti culinari; nei Cavalieri, ad esempio, il politico scaltro è colui che si mostra capace a parlare e a fare intingoli. Un'ultima curiosità: mentre l'ambientazione delle tragedie è esterna alla città di Atene, Aristofane evoca tutti gli spazi della polis, dall'agorà all'Acropoli, al quartiere Ceramico, ecc.
Qui di seguito propongo un percorso incentrato sulle principali opere del teatro greco in cui sono protagoniste le donne.
Le supplici (rappresentato nel 463 a.C.) di Eschilo
La tragedia narra delle cinquanta figlie di Danao, re della Libia, le quali approdano ad Argo per chiedere ospitalità al sovrano della città. Le donne raccontano di stare fuggendo dalla loro terra, l’Egitto, perché il loro zio vuole costringerle a sposare i suoi 50 figli maschi. Nel momento in cui le Danaidi invocano il diritto di ospitalità al re Pelasgo, ricordano di essere le discendenti della sacerdotessa Io, nativa di Argo e amata da Zeus, la quale fu trasformata in giovenca da Era e perseguitata dalle punture di un tafano. L'animale è stato costretto così ad una fuga che lo ha portato a spostarsi dall'Europa, all'Asia, fino ad arrivare in Egitto ove si è congiunto finalmente con Zeus dopo aver riottenuto sembianze umane. Le Danaidi inoltrano le loro richieste come supplici richiedenti asilo in nome della legge dell'ospitalità cara Zeus (vedi lezione civiltà micenea) e arrivano a minacciare di impiccarsi alle statue degli dèi se Pelasgo non accetterà le loro richieste: così facendo sarebbero divenute fonte di contaminazione (miasma) e, dunque, avrebbero procurato sciagure all'intera comunità di Argo. Le Danaidi, secondo l’ottica della civiltà greca, peccano di tracotanza perché sono donne ribelli che esulano dagli schemi di una società civile così come le Amazzoni; odiano il maschio prevaricatore e lottano contro l'obbligo del matrimonio. Il nobile Pelasgo si trova dinanzi ad una scelta difficile per cui chiama a raccolta il popolo di Argo per deliberare sulla questione: alla fine si decide di accogliere le donne. Nei successivi episodi della trilogia (Egizi e Danaidi) questa comunità femminile viene costretta ad unirsi in matrimonio con i loro cugini: le mogli, tuttavia, pugnaleranno i mariti a tradimento durante la prima notte di nozze per volere del padre Danao: a quest’ultimo, infatti, era stato profetizzato che sarebbe morto per mano di un suo nipote. Solo Ipermestra salverà il proprio sposo per amore e per questo sarà trascinata in tribunale dal padre.
Agamennone (458 a.C.) primo dramma della trilogia Orestea di Eschilo
Siamo ad Argo. Una sentinella annuncia che dai segnali di fuoco emessi dagli avamposti si è appreso che finalmente Troia era stata espugnata dai Greci dopo anni di assedio. Il coro narra gli eventi che hanno preceduto la guerra; in particolare viene raccontata la morte di Ifigenia: quando le navi greche dovevano salpare alla volta di Troia e il mare era in bonaccia, Agamennone sacrifica agli dèi la vita della figlia per ottenere venti propizi. È da quel momento, dunque, che Clitennestra, moglie di Agamennone, in cuor suo giura vendetta. La donna nasconde i suoi veri intenti con false parole di amore e di devozione rivolte al suo sposo, finalmente ritornato in patria e al talamo dopo anni di assenza. Agamennone all'inizio non accetta di essere onorato con una passerella di colore purpureo a lui dedicata perché non vuole peccare di hybris (superbia) nel momento in cui riceve onori simili agli dèi; tuttavia, alla fine cede alle insistenze della moglie. Egli ha portato con sé come concubina Cassandra, la figlia di Priamo il re di Troia, condannata da Apollo a predire sciagure senza essere creduta. Sin dal momento in cui la donna mette piede nella reggia avverte un'atmosfera funesta e, attraverso orrende visioni, viene a conoscenza della maledizione che grava sulla stirpe degli Atridi. La catena di eventi nefasti ha avuto origine nel momento in cui Atreo aveva imbandito un banchetto in onore del fratello Tieste in cui per vendetta, all'insaputa di quest'ultimo, aveva fatto servire le carni dei figli che Tieste aveva generato con una ninfa. Mentre Agamennone stava facendo un bagno in una vasca d’argento viene pugnalato a sorpresa da Clitennestra dopo essere stato imprigionato tra le maglie di una rete. Questa è stata la prima crime story della letteratura in cui è una donna ad uccidere il proprio sposo, se pur aiutata nell'impresa dall'amante Egisto (nato dall’unione di Tieste con la propria figlia Pelopia), il quale, tuttavia, nella storia ricopre solo il ruolo di comparsa.
Eumenidi (456 a.C.) terzo dramma della trilogia Orestea di Eschilo
L'ultimo episodio della trilogia si intitola Eumenidi (le benevolenti). La vicenda inizialmente è ambientata a Delfi ove è giunto Oreste con le mani ancora grondanti di sangue per aver ucciso la madre Clitennestra, omicidio commesso al fine di vendicare il padre Agamennone. Le Erinni (vedi sitografia), risvegliate dallo spettro di Clitennestra che reclama vendetta per il suo assassinio, accusano Apollo di aver prima spinto Oreste all'omicidio e, successivamente, di non aver permesso loro di punirlo come prescritto. Agendo in questa maniera Apollo, a loro dire, aveva disobbedito alle leggi stabilite dagli dèi e si era macchiato di una grave colpa. L'azione si sposta presso l'areopago di Atene; qui la dea Atena, insieme ad Apollo e a giudici da lei appositamente scelti, difenderà l'operato di Oreste: quest’ultimo aveva ucciso la madre per obbedire ai responsi dell'oracolo di Delfi, le cui profezie sono indiscutibili perché promanano da Zeus. Secondo Atena, inoltre, l’assassinio di un condottiero, soprattutto del calibro di Agamennone, di fronte agli dèi e agli uomini, ricopre un’importanza maggiore rispetto all'omicidio di una donna, in particolar modo se si tratta di un’assassina adultera qual è stata Clitennestra. Trionfa la misoginia soprattutto nelle parole di Apollo, il quale sostiene che i figli devono essere considerati solo del padre dal momento che le madri ricoprono il mero ruolo di custodi del seme maschile in attesa del suo germoglio. Oreste, dunque, aveva il sacrosanto diritto di vendicare il padre. Atena si mostra concorde con Apollo e vota a favore del matricida. Oreste così viene assolto e liberato dalla persecuzione delle Erinni, le quali temono di uscire umiliate da questa sentenza e minacciano di maledire Atene. La loro furia viene deposta solo quando Atena promette che la capitale dell'Attica tributerà loro onori e gloria: da furie le Erinni diventano così le Eumenidi, le benevolenti, perché assicureranno prosperità e pace nei decenni futuri. È particolarmente visibile in questa trilogia la paura della donna vista come potenziale pericolo per la stabilità di un sistema, prettamente maschilista e patriarcale, nel momento in cui esce dai ranghi e sembra ribellarsi alle regole. Nell'indecisione se uccidere o meno la madre Oreste chiede consiglio all'amico Pilade, il quale gli ricorda che ottemperare ai responsi dell'oracolo di Delfi sia più importante del rispetto che un figlio deve nutrire nei confronti della madre. Per Eschilo, infatti, la devozione agli dèi viene prima di qualsiasi altra cosa perché costituisce il fondamento della società ateniese alla quale sono subordinati i valori familiari.
Antigone (442 a.C.) di Sofocle (fig.39)
Temi della tragedia sono: il rispetto dei vincoli di sangue, la sepoltura come dovere nei confronti dei congiunti defunti (legge non scritta dagli dèi) e l'ottusa ragion di Stato (incarnata da Creonte). L'opera si colloca temporalmente in un momento successivo alla tragedia dei Sette contro Tebe di Eschilo. Dal conflitto tra i fratelli Eteocle e Polinice nessuno dei due è uscito vincitore dal momento che, nel duello finale, entrambi hanno perso la vita. Su di loro incombe la maledizione di Edipo: nessuno dei due figli, infatti, era intervenuto per evitare che il padre fosse mandato in esilio, né gli hanno impedito di autopunirsi con l'accecamento perché si era macchiato della colpa di incesto, la peggiore commessa da un uomo (anche se, nel suo caso, era avvenuta involontariamente). Creonte , fratello di Giocasta, madre e moglie di Edipo, anch'essa morta suicida, ha preso il potere nella città di Tebe e ordina che i nemici di Eteocle e, dunque, della patria non saranno sepolti: chi oserà venir meno a questo decreto sarà condannato a morte per lapidazione. Antagonista di Creonte è il personaggio di Antigone, sorella di Polinice, che si vota alla morte nel momento in cui decide di onorare il fratello defunto con il rito della sepoltura. Ad Antigone si contrappone la sorella Ismene , la quale non è d'accordo con questa sua decisione. Secondo le sue argomentazioni la famiglia aveva già patito troppe sventure; le donne, inoltre, sono destinate a soccombere nello scontro con i maschi perché sono questi ultimi a detenere il potere per cui alle femmine non rimane altro che sottostare alle prepotenze. Creonte , dal canto suo, davanti al coro pronuncia le ragioni della sua decisione: la patria viene prima delle amicizie personali e i nemici vanno puniti in maniera esemplare anche a costo di prendere provvedimenti contrari alla religiosità e alla morale perché occorre eliminare tutto ciò che minaccia l'equilibrio della polis. Una sentinella interviene sulla scena per annunciare che qualcuno aveva cosparso di polvere il cadavere di Polinice ed aveva celebrato il rito funebre. Creonte crede che siano stati i ribelli a fare tutto questo, dopo aver corrotto le guardie, per contravvenire al suo ordine. Dallo scontro tra Antigone e Creonte, in cui entrambi peccano di caparbietà, uscirà vincitrice Antigone se pur a prezzo della morte: la fanciulla diviene la paladina del diritto non scritto alla sepoltura; la sua lotta è condotta contro l'arroganza del potere. Creonte imprigiona le due sorelle mentre suo figlio Emone, futuro marito di Antigone, esorta il padre a ritornare sulla sua decisione. Il discorso pronunciato dal principe è assai brillante: la città di Tebe ha preso le parti della fanciulla perché ne ammira la devozione al fratello. Il figlio ricorda al padre che un buon re deve saper rivedere le proprie posizioni e sentire le ragioni del popolo altrimenti è come se regnasse in un deserto. Ma a nulla valgono gli argomenti di Emone: Creonte ordina che Antigone sia seppellita viva in una grotta perché la lapidazione prevederebbe la partecipazione del popolo alla sua punizione e, dunque, ciò potrebbe causare la contaminazione della comunità e causare un’ondata di sciagure. Dal momento in cui sarà sepolta viva, la fanciulla non apparterrà né al regno dei vivi, né a quello dei morti. Anche l'indovino Tiresia rimprovera l'ostinazione di Creonte, soprattutto dal momento che, da quando ha sepolto viva Antigone, si sono manifestati presagi nefasti. L'indovino viene cacciato via in malo modo e il re inizia ad avere dei dubbi, ma è troppo tardi: viene a sapere che Emone è morto suicida stringendo a sé il cadavere di Antigone. Un messaggero annuncia che, saputa la notizia, per il dolore si è tolta la vita anche la sposa di Creonte e madre di Emone. Alla fine, si decide di dare sepoltura a Polinice e il coro conclude ribadendo l'insegnamento principale della tragedia: guai a essere empi verso gli dèi! La superbia porta alla sventura e nel momento in cui si governa, occorre seguire le vie della saggezza. Antigone è morta per aver violato le leggi dello stato mentre Creonte è stato punito per non aver avuto pietà dei defunti, per giunta suoi consanguinei, e così facendo ha causato la distruzione della sua famiglia.
Elettra (420 circa a.C.) di Sofocle
La tragedia si ispira alla saga degli Atridi, tema già affrontato da Eschilo in Agamennone , le Coefore e le Eumenidi. Al centro vi è lo scontro tra la madre Clitemnestra e la figlia Elettra. Oreste , fratello di quest'ultima e figlio di Agamennone e Clitennestra, accompagnato dall'amico Pilade, rientra segretamente a Micene, dopo esservi stato allontanato in tenera età per volontà della sorella che voleva metterlo in salvo dagli intrighi familiari. Come accade in Eschilo, é l'oracolo di Delfi a decretare il volere di Apollo: Clitennestra e l'amante Egisto devono morire così da vendicare l'omicidio di Agamennone. Il piano di Oreste e Pilade é quello di fingere di essere messaggeri della morte di Oreste, avvenuta durante i giochi pitici, per poter consegnare ai due traditori un'urna con le finte ceneri del ragazzo: con questa scusa riusciranno così a penetrare all'interno della reggia di Micene per uccidere gli assassini di Agamennone. Protagonista della storia è anche Elettra, la quale grida vendetta ed è in attesa perpetua del fratello Oreste, il liberatore. Da anni é ridotta in condizioni simili alla schiavitù a causa della tracotanza di Clitennestra ed Egisto. Giunge sulla scena Crisotemi, sorella di Elettra, che la rimprovera del suo comportamento: basta piangere tutto il tempo; per vivere in libertà, purtroppo, bisogna obbedire a chi ha il potere. La vicenda a questo punto assume connotati simili alla tragedia dell'Antigone perché Clitennestra dà ordine che, al ritorno di Egisto, Elettra venga murata viva in una grotta: sarà questo il suo destino se non finisce di sospendere le lamentazioni per Agamennone. Crisotemi viene incaricata da Clitennestra di portare offerte funebri alla tomba del padre in seguito ad un incubo avuto dalla regina nel quale l’ombra di Agamennone conficcava presso il focolare lo scettro, ora impugnato da Egisto, e dal quale nasceva un ramo rigoglioso che con la sua ombra copriva tutta la terra dei micenei. In sostanza il sogno vaticinava il ritorno e la vendetta di Oreste. Interessante é lo scontro verbale tra Clitennestra ed Elettra. Clitennestra si discolpa dall'accusa di assassinio perché dice che, agendo in questo modo, ha voluto vendicare il sacrificio dell’altra figlia Ifigenia, immolata da Agamennone al fine di propiziarsi la partenza delle navi achee alla volta di Troia: il marito aveva dunque preferito Menelao e la causa degli Argivi all'amore per la famiglia. Elettra ribatte che in realtà il padre aveva dovuto purtroppo commettere questo sacrificio in quanto impostogli dalla dea Artemide perché per sbaglio, durante una caccia nei boschi, aveva ferito a morte il suo cervo sacro e comunque-continua-Agamennone doveva essere sottoposto ad un regolare processo e non tolto di mezzo con un omicidio. Elettra, alla fine del dibattito, disconosce la madre per tutte le empietà che aveva commesso, ma allo stesso tempo ammette di averne ereditato l'indole impudente. All'annuncio della falsa notizia della morte di Oreste, le donne hanno reazioni differenti; per Elettra, ancora ignara della verità, é il giorno più infelice della sua vita mentre Clitennestra é turbata dalla notizia, ma allo stesso tempo gongola perché non deve più temere la vendetta del figlio profetizzata dal sogno. Elettra vuole così passare all'azione e uccidere i suoi genitori: solo così le due sorelle saranno glorificate e onorate dal popolo in nome della giustizia. Avviene allora la scena del riconoscimento (agnizione) di Oreste e la vendetta è compiuta all'interno della reggia dove Clitennestra é da sola ad aspettare il ritorno di Egisto. Quest'ultimo al suo arrivo viene attirato nel palazzo con l'inganno perché gli si dice che degli stranieri erano giunti in città con le prove incontrovertibili della morte di Oreste. Con un autentico colpo di scena, assai audace per quei tempi, Egisto scopre che sotto il velo si cela il cadavere non di Oreste, bensì quello di Clitennestra; viene così anche lui ucciso mentre maledice la stirpe dei Pelopidi.
Medea (431 a.C.) di Euripide (fig.40)
Archetipo della maga e della donna sapiente, Medea è anche il simbolo della straniera guardata con sospetto dal popolo ospitante. All'inizio del dramma è la nutrice a raccontare l'antefatto della vicenda. Medea ha aiutato Giasone ad impossessarsi del vello d'oro finendo col tradire suo padre, il re della Colchide. Dopo aver ucciso a Iolco il re Pelia , i due giungono a Corinto ove godono dell'ospitalità dei reali. All'inizio Medea viene apprezzata per le sue doti di guaritrice, ma le cose cambiano quando Giasone la ripudia per sposare Glauce , la figlia del re Creonte . Quest'ultimo decreta l'esilio di Medea insieme ai figli nati dall'unione con Giasone perché teme la vendetta della fattucchiera contro sua figlia. Medea si considera la moglie legittima di Giasone perché la loro unione è stata suggellata da giuramenti prestati dinanzi agli dèi; tuttavia, secondo l'ottica della civiltà greca, il loro non poteva essere considerato un vero e proprio matrimonio regolare perché Giasone non aveva preso in moglie Medea alla presenza di testimoni e, dunque, mancava quell'impegno formale che era alla base dell'alleanza tra due famiglie, impegno ritenuto fondamentale per la cultura greca. La famiglia di Medea, inoltre, non aveva pagato alcuna dote a Giasone (anche se la donna ritiene che il vello d'oro, da lui conquistato grazie al suo aiuto, valga molto più di una dote convenzionale). Medea per seguire Giasone aveva abbandonato la Colchide sfidando la volontà del padre, per lo più aveva ucciso il fratello Absirto per facilitare la fuga e, così facendo, ha fatto sì di troncare ogni legame con la famiglia di origine. Ora non può più far ritorno a casa, come di solito succedeva alle donne ripudiate dal marito, e non ha nessuno che possa difenderla in sede legale. Non può neanche chiedere aiuto ai reali di Iolco, cui era legata dai vincoli dell'ospitalità, perché per vendicare il padre di Giasone aveva utilizzato la sua magia per far fuori il re Pelia. Una volta ripudiata, Giasone tratta la fattucchiera alla stregua di una concubina, privandola di ogni diritto. Medea si considera la moglie legittima dell'eroe anche per il fatto di avergli dato dei figli: è a lui unita dalla philìa, lo considera cioè un suo congiunto dal quale deve ricevere assistenza nel momento del bisogno e invece lui l'ha tradita, l'ha ripudiata e ha denigrato il suo status. Giasone pronuncia un discorso molto simile a quello di Apollo nella tragedia delle Eumenidi di Eschilo: egli considera i figli avuti da Medea come se fossero solo suoi ignorando i diritti della madre naturale. Medea può essere considerata a tutti gli effetti un'icona della lotta all'emancipazione femminile: si mostra una ribelle nel momento in cui si è unita all'eroe senza l'approvazione e l'autorizzazione del padre e perché si pone allo stesso livello dei maschi; tiene testa nella discussione a Giasone, a Creonte ed Egeo sia dal punto di vista della validità delle argomentazioni sostenute, sia per quanto riguarda la retorica. La vendetta all'epoca poteva essere compiuta solo dai maschi, le donne dovevano solo tenere vivo il ricordo della vittima e, in questo, Medea sovverte le regole quando prende in mano il suo destino e travalica lo spazio domestico. In uno splendido monologo ella descrive mirabilmente la condizione femminile della sua epoca: le donne sono le creature più disgraziate perché vivono come prigioniere all'interno delle loro case e sono succubi del proprio sposo che non possono nemmeno ripudiare. La tragedia riflette anche su un altro tema molto sentito nell'Atene del V secolo a.C., periodo in cui avvenivano sempre più frequentemente unioni tra maschi ateniesi e donne straniere (cosa che-si pensava- potesse intaccare la purezza della società ei valori su cui si fondava la polis): al centro del dramma vi é, infatti, una condizione che accomuna Medea a tutte quelle immigrate che avevano dovuto adattarsi alle abitudini del popolo ospitante, il quale, tuttavia, continua a guardarle con sospetto. Medea riassume agli occhi dei Greci tutte quelle caratteristiche imputate ai barbari: sensualità, violenza, ipocrisia, passionalità. La maga era una donna indipendente, forte, depositaria dei poteri dell'occulto: un mix che terrorizzava il maschio greco detentore del potere. Medea si rivela essere anche un'abile manipolatrice: lo vediamo nella scena in cui, davanti a Giasone, finge di accettare di conformarsi allo stereotipo della moglie greca obbediente. Ancora, simula di essere contenta quando, dietro il suo stesso suggerimento, riesce a strappare a Creonte la concessione che i figli possano rimanere con Giasone e la sua nuova moglie. Dice a Creonte di non nutrire alcun risentimento nei suoi confronti dal momento che aveva tutto il diritto di concedere la figlia ad un uomo che considerava meritevole. In realtà Medea confida al coro il suo vero piano: uccidere Creonte, Glauce ei figli avuti da Giasone per mezzo della spada o col veleno: solo così nessuno potrà più deriderla a causa della perdita del suo status dal momento in cui è stata ripudiata. Quando entra in scena Giasone, tra i due avviene un battibecco: Medea lo reputa un menzognero perché aveva violato i giuramenti dinanzi agli dèi; inoltre, avendola privata dei rapporti intimi, l'aveva umiliata e lo accusa di averla ripudiata nonostante avessero avuto dei figli. Questo era avvenuto nonostante tutto quello che lei aveva fatto per aiutarlo nelle sue imprese. Giasone la esorta a non esagerare riguardo i suoi meriti: la donna-a suo dire-lo aveva aiutato a conquistare il vello d'oro e a liberarsi di Pelia solo perché mossa da Afrodite, la dea dell'amore. Secondo Giasone, Medea doveva essere grata e onorata del fatto di essere stata la sua compagna anche perché aveva avuto il privilegio di abbandonare la sua terra di origine (la Colchide), incivile e barbara, per andare a vivere in Grecia, patria della cultura, della civiltà e della giustizia. Continuando, egli ribadisce che la decisione di sposare Glauce è stata motivata solo dal desiderio di assicurare un glorioso futuro ai suoi figli i quali, un giorno, avrebbero regnato accanto ai fratellastri nati dall'unione dell'eroe con la principessa di Corinto: in questa maniera sarebbero vissuti egregiamente, privi di ristrettezze. Egli non l'aveva avvisata preventivamente della decisione delle sue nozze solo perché era convinto che la maga non gli avrebbe dato il suo consenso perché le donne si dimostrano ostili a cedere il letto coniugale. La realtà, tuttavia, era ben altra: Medea si era rivelata un ostacolo alla sua ambizione e come tale andava eliminata. La macabra fine dei reali di Corinto è descritta magistralmente dal Messaggero: Glauce morirà dopo aver indossato il peplo e la corona dorata offerti in dono da Medea. Nel tentativo di salvare la figlia morirà anche Creonte, travolto dalle fiamme. Medea fino alla fine è combattuta tra il desiderio di lasciare in vita i figli, che amava più della sua stessa vita, e la necessità di ucciderli per evitare che venissero fatti fuori dai Corinzi (oltre al fatto che si trattava dell'unica via di uscita per evitare lo scherno da parte dei suoi nemici). Il figlicidio avviene all'interno della casa. Quando sopraggiunge Giasone, ignaro del terribile piano ordito dalla strega, a salvare la sua prole dalla vendetta dei Corinzi, Medea appare su un carro sospeso nel cielo e maledice l'eroe a causa del suo vile tradimento: ora non potrà più sposarsi, né generare altri figli, né godere di quelli già avuti. Si tratta della punizione più terribile in cui poteva incorrere un uomo: egli, inoltre, non può nemmeno piangere sui cadaveri dei figli perché Medea glieli ha sottratti per seppellirli nel santuario dedicato a Hera Akraia, al fine di dar loro l'immortalità. Secondo alcune fonti del tempo non sarebbe stata Medea ad uccidere i suoi figli, bensì i Corinzi, allo scopo di far cessare l'epidemia scoppiata in città dopo il delitto commesso. Essi, dunque, avrebbero pagato Euripide affinché cambiasse la versione della storia. Alla fine della tragedia Medea trionfa come la discendente del dio Sole e si invola su un carro allontanandosi dal mondo dei mortali.
Troiane (415 a.C.) di Euripide
La tragedia vede come protagoniste le figure femminili decantate dall’Iliade di Omero. La città di Troia è stata devastata dai Greci. Le donne troiane prigioniere, considerate bottino di guerra, vengono spartite tra i vincitori. L'inizio della tragedia vede protagonisti Poseidone ed Atena, la quale intende decimare la flotta achea durante il viaggio di ritorno da Troia verso casa. I Greci, infatti, si erano macchiati di una terribile empietà dal momento in cui Aiace Oileo aveva trascinato via dal santuario il simulacro dedicato alla dea insieme alla sua sacerdotessa Cassandra. Successivamente appaiono sulla scena una dopo l'altra le protagoniste della vicenda a partire da Ecuba. La donna si lamenta della propria sorte e considera Elena la principale responsabile della rovina della stirpe cui appartiene il marito Priamo, il leggendario re di Troia. Un messaggero annuncia la spartizione del bottino: Cassandra, la profetessa figlia di Ecuba, è destinata a divenire la concubina di Agamennone, la sorella Polissena sarà immolata sul sepolcro di Achille, Andromaca, sposa di Ettore, diverrà la schiava di Neottolemo, il figlio di Achille, e infine Ecuba, per ironia della sorte, seguirà Odisseo, il principale artefice della caduta di Troia. All'interno della tenda ove sono sequestrate le prigioniere si vede all’improvviso brillare una luce: si tratta di Cassandra che, in preda al delirio scatenato da una sua visione profetica, sta celebrando in anticipo il suo matrimonio con Agamennone, evento che segnerà la fine della stirpe degli Atridi. Ricordiamo infatti che Agamennone, al suo rientro in patria, verrà assassinato dalla moglie Clitennestra con la complicità dell'amante Egisto. Clitennestra voleva innanzitutto vendicarsi del sacrificio della figlia Ifigenia, avvenuto per mano del marito: il rituale era stato imposto dalla dea Artemide per far sì che il mare non fosse più in bonaccia e che le navi achee potessero salpare alla volta di Troia. Ma Clitennestra era adirata con Agamennone anche per un altro motivo: egli aveva fatto ritorno da Troia con Cassandra nelle vesti di concubina e questo gesto aveva oltraggiato la regina. La profetessa accusa Elena di essere la principale fonte di sciagure sia per gli Achei che per i Troiani; a suo dire questi ultimi almeno erano morti per una nobile ragione, ovvero difendere la loro città, mentre i Greci avevano perso la vita solo per andarsi a riprendere una donna tutt'altro che onorata. La tragedia rivela tutta la potenza profetica di Cassandra che predice l'imminente morte di Ecuba, il lungo esilio di Odisseo, la propria fine e quella di Agamennone. Alla sua uscita di scena segue la riflessione di Ecuba sul contrasto tra i fasti della sua vita passata, quando regnava sulla ricca e potente Troia, e il rovinoso presente in cui è divenuta una misera schiava costretta a dormire su scomodi giacigli (se sarà fortunata le sarà affidato il compito di custodire le chiavi delle porte della reggia cui è destinata o svolgerà la mansione di panettiera). Ecuba invoca tutti i suoi figli oramai morti o destinati a morire e prega gli dèi di affrettare la sua fine. Insieme ad Andromaca compiange Ettore morto prematuramente nell’ impresa di difendere la città oramai ridotta in macerie e popolata solo da cadaveri, cibo per gli avvoltoi. La delicatezza della figura di Andromaca emerge dalle sue considerazioni sulla sua attuale condizione: é a causa della sua fama di moglie e madre virtuosa che Neottolemo ha deciso di prenderla con sé. La donna, infatti, usciva raramente dal palazzo perché si preoccupava solo di accontentare i desideri del suo sposo, non prestava ascolto alle chiacchiere e ai pettegolezzi femminili e sapeva bene in quali momenti della vita coniugale fosse opportuno darla vinta al marito e quando invece contraddirlo. Andromaca sa bene che, nel momento in cui metterà piede nella reggia di Ftia, sarà combattuta tra due alternative: vivere nel ricordo di Ettore, inimicandosi così Neottolemo o rassegnarsi ad amare quest’ultimo attirandosi però il rancore del morto. Ecuba le suggerisce di conquistare l'amore del nuovo marito per poter crescere nella maniera migliore Astianatte, il figlio avuto da Ettore, ma questo si rivelerà impossibile. A questo punto del dramma, infatti, giunge la terribile notizia che il piccolo Astianatte è destinato ad essere scaraventato giù dalle mura di Troia per mano di Neottolemo così da essere di monito per tutti i Troiani, ma anche per impedire che un giorno, da adulto, possa tornare a vendicare la sua gente causando un’altra guerra rovinosa. Andromaca piange il suo defunto sposo scomparso prematuramente perché non può intervenire a salvare il bambino che lei ha partorito e ha cresciuto con amore. Infine, rassegnata al suo destino, si avvia verso le navi dirette a Ftia. Entra allora in scena Elena, unico personaggio femminile negativo all'interno della tragedia perché considerata la causa principale della rovina di Troia e delle morti degli Achei. La donna cerca di discolparsi e indica in Ecuba la vera causa della guerra insieme a Priamo: la prima è colpevole di aver partorito Paride mentre il secondo di non averlo eliminato appena nato così come avevano suggerito i sogni premonitori. Elena ricorda poi la famosa contesa della mela d'oro vinta dalla dea della bellezza: a suo dire è stata Afrodite a scatenare l’amore passionale che aveva travolto lei e Paride al punto da causare la famosa guerra terminata con la sconfitta dei barbari. Che dire poi di Menelao? Anche suo marito è nell’elenco dei colpevoli perché nel momento in cui era dovuto partire all'improvviso per Creta aveva lasciato la sua bellissima moglie alla mercè di Paride ed Ettore, suoi ospiti presso la reggia di Sparta. Ecuba controbatte una per una tutte le giustificazioni addotte dalla celebre seduttrice: la colpa del suo folle innamoramento per Paride non è attribuibile ad Afrodite perché è lei stessa che è impazzita d'amore alla vista del suo bellissimo figlio Paride. E poi, se è vero che Elena era stata costretta a seguire Paride, perché non aveva chiamato in suo aiuto nel momento del rapimento gli invincibili fratelli gemelli Castore e Polluce o i suoi concittadini? In realtà il suo vero obiettivo era quello di vivere circondata dal lusso: ecco perché aveva seguito spontaneamente Paride a Troia. È Elena, dunque, la vera colpevole di questa guerra disastrosa Grazie al suggerimento di Ecuba, la celebre femme fatale verrà imbarcata su una nave diversa da quella in cui viaggiava Menelao, al fine di evitare che il re di Sparta potesse subire ulteriormente il suo fascino e salvarle la vita. Verrà poi uccisa dagli Argivi affinché la sua fine servisse da esempio per tutte le donne a lei simili. La tragedia si conclude con la notizia dell'assassinio di Astianatte e dell'immediata partenza per Ftia della nave di Neottolemo che porta con sé Andromaca. Ecuba viene incaricata di officiare il rito funebre del corpicino del nipote; la regina di Troia si lamenta degli dèi invidiosi delle ricchezze e della potenza della città al punto tale da averne causata la distruzione. L’opera si conclude con una suggestiva immagine dell'incendio della città. Con questa tragedia Euripide, attraverso il racconto del destino delle donne che, a causa della guerra, sono state strappate al letto nuziale per essere costrette alla schiavitù, vuole lanciare un messaggio di pace dopo anni di conflitti interni ed esterni che avevano causato la rovina della Grecia.
Le Baccanti (403 a.C.) di Euripide (fig.41)
Le Baccanti rappresenta la fine della stagione di splendore della tragedia greca. L’opera vuole omaggiare la storia di questo genere letterario nato come “canto del capro” in omaggio a Dioniso e, allo stesso tempo, intende riferirsi ai nuovi culti misterici che si stavano diffondendo a partire dall'Oriente. Antagonista del dio del vino e dell'euforia è il re di Tebe Penteo, ostile alla diffusione del nuovo culto. Le Baccanti è una tragedia in cui si parla di donne perché proprio per punire Penteo, il dio del vino farà divenire folli le donne tebane al punto da spingerle ad abbandonare le loro case per andare a vivere allo stato selvaggio sul Monte Citerone. Cadmo, il padre di Penteo, al contrario del figlio, si mostra invece incline a seguire il nuovo culto e lo stesso entusiasmo pervade anche l'indovino Tiresia che indossa i paramenti bacchici e addirittura vuole incoronare Penteo con la corona di edera, simbolo di Dioniso. Il re di Tebe accusa il dio del vino di essere un mero stregone ciarlatano che, con il pretesto di officiare iniziazioni in suo onore, ama intrattenersi in compagnia delle donne organizzando delle vere e proprie orge. Tra le seguaci del tiaso di Dioniso c'erano anche le tre figlie di Cadmo, tra cui Agave, la madre di Penteo. Chi era riuscito a spiare le Baccanti riporta una versione diversa da quella sostenuta dal re: non donne dedite a coltivare i piaceri del sesso e del vino, ma esseri selvaggi che vivono in comunione con la natura, con i capelli sciolti, che indossano solo le nebridi (pelli di cerbiatto) e allattano cuccioli di lupi e di caprioli. Esse riescono addirittura a far scaturire, grazie al tocco dei loro tirsi, latte e vino dal terreno. Quando le Baccanti vengono infastidite dai mandriani del luogo, i quali vogliono riportare Agave al re allo scopo di ingraziarselo, reagiscono in maniera forsennata e selvaggia: fanno a pezzi le bestie al pascolo, assaltano i centri abitati ai piedi del Citerone ferendo gli abitanti con i tirsi. Penteo allora vuole fare giustizia, ma in realtà cade nel tranello di Dioniso travestito, il quale gli suggerisce di indossare abiti femminili per poi mischiarsi alle Baccanti rifugiatesi sul Monte Citerone: era questo l'unico modo per poterle osservare da vicino. Ma le donne, istigate dal dio, scoprono l'inganno e si scatenano contro il re: quella più agguerrita nei suoi confronti é proprio sua madre Agave che, pervasa dalla follia, crederà di aver fatto a pezzi un leone anziché il figlio e ne porterà al padre Cadmo la testa impalata sul tirso a mo’ di trofeo. Nel momento in cui la donna, per volere di Dioniso, riconquista la lucidità, si rende conto di ciò che aveva commesso per volontà del dio, il quale aveva voluto punire suo figlio, dimostratosi ostile al suo culto. Agave maledice il luogo in cui è avvenuta la strage e decide di abbandonare il tirso anche se è consapevole che ci saranno altre Baccanti ad officiare i riti. Sarà condannata ad espiare ciò che ha fatto e partirà per un lungo esilio.
Lisistrata e Donne in parlamento (Aristofane 411 a.C; 392 a.C.)
Le due commedie sono accomunate dal fatto che le donne, protagoniste della vicenda, prendono il potere in una società maschilista e misogina, al fine di riportare la polis ai valori di un tempo e fare ciò che i loro compagni non erano stati in grado di realizzare: la conquista della pace dopo decenni di guerra. Le protagoniste si rivelano abili strateghi perché, nel corso degli anni, mentre erano rinchiuse all'interno della loro prigionia domestica, hanno saputo osservare e studiare i modi e i discorsi della politica portata avanti dai loro mariti per poi ad un certo punto ribellarsi al fine di sovvertire l'ordine sociale. Pur di raggiungere il loro obiettivo esse arrivano a sfruttare l’arma della seduzione. In Lisistrata le donne decidono di astenersi sessualmente in modo tale che gli uomini di tutta l'Ellade siano costretti a deporre le armi in favore della pace. Nelle Donne al parlamento la città si trasforma in un'enorme casa gestita saggiamente dalle eroine della commedia, rese esperte da anni di gestione economica domestica, cosicché spazi pubblici, quali portici e tribunali, diventano scenari per l'allestimento di banchetti collettivi. Gli uomini, gestori del potere fino a quel momento, sono paragonati ad un'accolita di ubriachi che avevano deciso le sorti della comunità non in base alle necessità collettive ma alle smanie di novità. C’è però una nota grottesca: nella commedia le donne impongono il comunismo dei beni e arrivano a promulgare leggi improponibili come, ad esempio, il divieto per i giovani di unirsi alle belle ragazze senza aver prima giaciuto con donne brutte o anziane. Un’ altra scena esilarante è quando le protagoniste si travestono da uomini indossando barbe posticce, mantelli e calzature maschili e vogliono imitare l’ andatura dei loro compagni…
Conclusioni
La donna, nel teatro greco, diviene simbolo di quella paura del cambiamento che attanaglia la società patriarcale dell'epoca. Atti trasgressivi come quelli agiti da Elettra, Clitennestra, Medea, Antigone, etc. denotano il crollo dei valori alla base di un ordine in bilico. Nelle tragedie, soprattutto euripidee, in cui le protagoniste sono donne che hanno subito violenza, abusi o torti inflitti dagli uomini, si legge una critica alla condotta maschile e ad una società di stampo patriarcale, ma non si arriva mai a mettere in discussione né la supremazia maschile e la sua esclusiva detenzione del potere, né la divisione dei ruoli tra i sessi. Nelle commedie di Aristofane, invece, il loro ruolo è sempre quello di sovvertitrici ma, allo stesso tempo, sono le depositarie dei valori genuini di un tempo passato, valori che difficilmente-l'autore lo sa- torneranno in auge.
Per la rubrica Culturnauti in viaggio, condivido alcune foto della mia visita al teatro greco di Epidauro.
In questa foto é visibile la cavea con una spettatrice non proprio risalente all'epoca della costruzione del teatro!
Il teatro di Epidauro sembra un padiglione auricolare scavato sulle pendici del monte Kynortion. Costruito nel IV secolo a.C. poteva contenere ben 14.000 spettatori. La sua particolarità é che se si produce un suono al centro dell'orchestra, esso é perfettamente udibile dalle gradinate più alte.
L'immagine qui sopra riporta uno dei parodoi da cui entravano il coro e gli attori (vedi paragrafo teatro struttura e funzione).
Per le unità di apprendimento sulla donna nell'antica Grecia
Una storia al femminile di Rossella Carpentieri contenuta nel testo Storia di ieri, mondo di oggi Corso di Storia antica e medievale di F. Cioffi e A. Cristofori Edizioni Loescher, 2022.
Per donne e matrimonio nell’antica Grecia:
https://youtu.be/JaF97nEDv40?si=IpNubCgSR-_M9QZw
Per la donna ad Atene:
https://youtu.be/DiFB1q040Jc?si=6ttDSh6rMm_DxDWU
Per le donne greche:
https://youtu.be/dytB5uW-vJE?si=WbHkqJ0ZIkDRf0KA
Per il trucco nell’antica Grecia:
https://youtu.be/agj9VjnX1bY?si=2TDlRmXOz8hoirT7
Per amore sessualità e matrimonio nell’ antica Grecia:
https://www.worldhistory.org/trans/it/2-1713/amore-sessualita-e-matrimonio-nellantica-grecia/
Per Socrate:
https://it.wikipedia.org/wiki/Socrate
Per Platone:
https://it.wikipedia.org/wiki/Platone
Per Aristotele:
https://it.wikipedia.org/wiki/Aristotele
Per il Giambo delle donne:
https://it.wikisource.org/wiki/Satira_sopra_le_donne
Per frammento 94 di Saffo:
https://www.atelierpoesia.it/sarah-talita-silvestri-saffo-frammento-94-atelier/
Per frammento 2 di Saffo:
https://www.skuolasprint.it/opere-greche/saffoopere/feste-nel-tiaso.html
Per Erodoto:
https://it.wikipedia.org/wiki/Erodoto
Per le Erinni:
https://it.wikipedia.org/wiki/Erinni
Per le Eumenidi:
https://youtu.be/xKRU6UqRLTQ?si=Bn3QpjqBTx4mQGJo
Per film Antigone di Sofocle del 1971:
https://youtu.be/xZAYDhqBtmM?si=qg7DVGPR5IEkVK65
Per il corto Antigone:
https://youtu.be/yA8g2jpcgtE?si=BtXYZNvK9twmsTle
Per Elettra di Sofocle con Lina Sastri (2007):
https://youtu.be/oqyFWgazb-0?si=NSdmet48fNbiBU7k
Per Medea:
https://youtu.be/zOEB44h7S5k?si=uBG1hIl9GQsT8xPx
Per Medea con Sarah Ferrati (1957):
https://youtu.be/pZR5Fu4ITac?si=yUOy6r_r_63fNPMg
Per le Baccanti di Euripide (2021):
Fig.01 https://www.ilfaroonline.it/2021/07/07/lodissea-le-avventure-di-ulisse-penelope-in-5-minuti/425279/
Fig.02 https://www.skuola.net/storia-antica/donna-antica-grecia.html
Fig.03 https://www.worldhistory.org/trans/it/1-19387/etera/
Fig.06 https://it.mahnazmezon.com/articles/humanities/women-and-marriage-in-ancient-greece.html
Fig.07 https://it.wikipedia.org/wiki/Socrate#/media/File:Socrate_du_Louvre.jpg
Fig.08 https://www.skuola.net/filosofia-antica/platone-repubblica.html
Fig.09 https://it.wikipedia.org/wiki/Aristotele#/media/File:Aristotle_Altemps_Inv8575.jpg
Fig.10 https://www.rapsodiamitologica.it/estia/
Fig.12 https://it.wikipedia.org/wiki/Aspasia_di_Mileto#/media/File:Aspasie_Pio-Clementino_Inv272.jpg
Fig.13 https://www.matematicando.supsi.ch/media/Poster_Matematicando-Film_Il-diritto-di-contare_Teano.pdf
Fig.15 https://www.storicang.it/a/ipazia-filosofa-alessandrina_14951
Fig.17 http://www.latelanera.com/divinita-demoni-personaggi/dio-demone-personaggio.asp?id=304
Fig.18 https://allascopertadelledonne.wordpress.com/2016/09/18/amazzoni/
Fig.19 https://www.sololibri.net/Saffo-vita-poesie.html
Fig.21 https://www.studiarapido.it/abbigliamento-nellantica-grecia-maschile-e-femminile/
Fig.22 https://it.wikipedia.org/wiki/Clamide#/media/File:NAMA_Herm%C3%A8s_Tr%C3%A9z%C3%A8ne.jpg
Fig.23 https://www.pinterest.it/pin/483855553695589849/
Fig.24 https://www.studiarapido.it/teatro-greco-struttura-architettura/
Fig.25 https://significa.it/deus-ex-machina/
Fig.27 https://it.wikipedia.org/wiki/Commedia_greca_antica#/media/File:NAMA_Masque_esclave.jpg
Fig.28 https://nubicuculia.wordpress.com/aspetti-tecnici/costumi/
Fig.30 https://capodorlando.org/siciliantica/il-culto-dionisiaco/
Fig.31 https://it.wikipedia.org/wiki/Teatro_di_Delfi#/media/File:07Delphi_Theater03.jpg
Fig.33 https://it.wikipedia.org/wiki/Eschilo#/media/File:Aischylos_B%C3%BCste.jpg
Fig.34 http://web.tiscalinet.it/appuntiericerche/Greco/sofocle.htm
Fig.35 https://it.wikipedia.org/wiki/Euripide#/media/File:Euripide_2007.jpg
Fig.37 https://www.mediterraneaonline.eu/origini-della-commedia-greca/
Fig.38 https://it.wikiquote.org/wiki/Aristofane#/media/File:Aristofanes.jpg
Fig.39 https://www.storicang.it/a/antigone-e-il-potere-della-scelta-solitaria_15171
Titolo | Descrizione |
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Medea Le mura di Sana'a | P.Paolo Pasolini (1969) Il film vede una grande Callas nei panni della strega Medea. Lo consiglio perché é molto suggestivo ma, per poterlo seguire, occorre conoscere molto bene a priori a trama della vicenda. |
Agorà | Film di A. Amenàbar (2009) Lungometraggio avvincente che ricostruisce il clima culturale e politico degli anni in cui avviene la triste vicenda di Ipazia di Alessandria. Da vedere assolutamente. |